CRITICA

La Resistenza sulle note dei Pink Floyd

Grandioso. Se qualcuno all’Unipol Arena di Bologna si aspettava un concerto-revival con il meglio dei Pink Floyd, che comunque sarebbe andato benissimo, sarà rimasto sorpreso. Quello che Roger Waters ha proposto ai 20 mila fan stipati ognuna delle cinque sere, dal 21 al 25 aprile, dentro al palazzetto, è stato molto molto di più: oltre due ore di viaggio nella musica che ha fatto la storia, nelle immagini, nelle luci, colori ed effetti speciali secondo la migliore tradizione psichedelica dei Pink Floyd, nelle emozioni senza tempo che questo artista poliedrico e visionario, ancora al meglio di sé, regala da 50 anni.

E non solo. Perché l’evento è stato uno show a tutto tondo, musicale e concettuale, un pugno in faccia alla politica, alla violenza, ai privilegi e alla ricchezza, un monito a scalare marcia, a tornare al rispetto della terra e degli uomini che la popolano. Il 75enne bassista e anima di una delle più grandi band di tutti i tempi non ha mai fatto mistero delle sue idee politiche e del suo “antitrumpismo”, come della sua profonda avversione per ogni forma di sopraffazione, di razzismo, di ingiustizia sociale e di barbarie politica.

Così, accanto allo stupore e all’emozione per la musica, Us & Them ha lasciato, netta e decisa, anche una sensazione di tristezza e di impotenza di fronte al disfacimento del mondo e alle macerie con cui Waters costringe a fare i conti, attraverso le immagini che passano sui maxischermi e attraverso le sue parole.

Eppure, sfumata l’ultima nota di Confortably Numb che ha immancabilmente chiuso il concerto, già viene voglia di salire in macchina velocemente e farsi il viaggio di ritorno con la discografia completa dei Pink Floyd a palla e continuare con l’emozione che è esplosa dentro fin dal primo accordo di Speak to me. Magari anche di andare a caccia di un biglietto per Roma o Lucca, perché pare che lo show estivo sarà ancora di più: più intenso, più spettacolare, più sorprendente. Viene naturale chiedersi come sia possibile, dopo aver visto, anzi essere stati immersi nell’immenso palcoscenico in cui Waters ha trasformato l’Unipol Arena.

Accompagnato da una band straordinaria e da due altrettanto straordinarie coriste,in parrucca biondo platino e lustrini anni ’60, ha offerto il meglio della produzione dei Pink Floyd, intervallando pezzi storici (si comincia con Speak to me, Breathe, One of These Days, The Great Gig in the Sky) con le nuove Déja Vu e The Last Refugee. Non c’è un angolo dei 5.300 metri cubi del palazzetto che non sia invaso dalla musica e dai colori, il blu del cielo, il rosso del sangue, il verde e il viola, mentre sul maxischermo dietro al palco scorrono le immagini di Waters e della band, animazioni in stile The Wall, infiniti cieli stellati.

Whish you were here è l’apoteosi, con l’assolo di chitarra che dal primo accordo scatena il boato del pubblico. Potrebbe già bastare, ma il bello deve ancora venire. Arrivano i ragazzi del coro dell’Antoniano in una versione inedita di Another Brick in the Wall. Vestiti con le tute rosse dei prigionieri di Guantanamo, marciano al martellante ritmo del ritornello e si tolgono le tute per mostrare T-shirt nere con la scritta “Resist”. Quei ragazzi che nel videoclip del 1979 si ribellavano al tritacarne di un’educazione coercitiva e mortificante, sono cresciuti e resistono, perché resistere – sta dicendo Waters – è l’unica forma possibile di ribellione. Del resto, a fine concerto, alla domanda della canzone Mother, «should I trust the government?» la risposta a caratteri cubitali sul maxischermo è «col cazzo».

Ma è nella seconda parte che lo spettacolo cambia ancora marcia: sulle note di Dogs, cala dal soffitto fino al parterre, in senso longitudinale, un enorme maxischermo lungo 70 metri su cui lentamente si materializza, dal basso verso l’alto, la celebre Battersea Power Station, la centrale termoelettrica londinese consegnata alla storia dalla copertina di Animals, con tanto di ciminiere fumanti e maiale in volo. L’effetto è da capogiro e mentre Dogs sfuma in Pigs, un gigantesco maiale, con la faccia di Trump ben visibile su un fianco, volteggia sul pubblico. Se ancora non fosse chiaro il Waters-pensiero, il maxischermo si riempie con la scritta in italiano «Trump è un maiale», accompagnata da alcune delle “migliori” citazioni di “The Donald”. E non c’è solo Trump nel mirino del genio assoluto che Waters si è dimostrato ancora una volta, ci sono i potenti e i meno potenti-ma arroganti: tra i primi Putin, Erdogan e Kim-Jon-un, tra i secondi anche Berlusconi e Salvini, che sfilano sulle note di Money.

Il concerto sta per finire: Waters attacca Eclipse e sospesa sul pubblico appare una piramide di fasci di luce bianchi a celebrare la copertina di The Dark Side of the Moon. E ancora luci e coriandoli colorati che volteggiano sul pubblico, mentre il capolavoro Confortably Numb, un monumento della musica di tutti i tempi, chiude il concerto in un tripudio di applausi e raggi laser con tutti i colori dell’iride.

Il vecchio Waters, con l’entusiasmo del ragazzino scende dal palco, stringe mani e saluta, poi sale di nuovo, allarga le braccia e le chiude a croce sul cuore, ad abbracciare simbolicamente il suo pubblico. Si accendono le luci e la folla comincia a uscire lentamente con la sensazione di aver assistito a qualcosa di unico, straordinario, maestoso.