ATTUALITÀ IL PERSONAGGIO

La signora della politica italiana

Il 20 giugno 1979, Nilde Iotti, sale sullo scranno più alto di Montecitorio, prima donna (e comunista!) nella storia dell'Italia repubblicana, ad essere eletta presidente della Camera. Ruolo che ricoprirà fino al 1992, con equilibrio, passione, rigore e spirito di servizio

Il ricordo commosso e appassionato di Nilde Iotti – che esattamente quaranta anni fa veniva eletta presidente della Camera – nelle parole di Giorgio Frasca Polara, suo portavoce per tutta la durata dell’incarico. E che le è rimasto accanto fino al giorno della morte della «gran signora della politica italiana», come la definì il quotidiano “Le Monde”, avvenuta il 3 dicembre del 1999.

«Qui alla presidenza della Camera sono stata chiamata ripetutamente dalla crescente fiducia dei colleghi, e qui resto per rispettarne la volontà». Il biglietto manoscritto di Nilde Iotti fu recapitato per motociclista al Quirinale una sera dell’autunno del 1991. Poco prima era trapelata l’indiscrezione che Francesco Cossiga – nel pieno della sua stagione picconatrice – intendeva offrire da un momento all’altro a Nilde il seggio di senatrice a vita. Riferii la voce (più tardi confermata) alla presidente, che non prese tempo e vergò quel biglietto. Ma non ci fu “notizia”. La discrezione innata e la delicatezza della contingenza giunsero al punto che Nilde pregò chi sapeva (solo tre persone, il suo piccolo gabinetto) di non far parola del suo rifiuto, dettato non certo da orgoglio personale, dacché la nomina avrebbe comunque siglato una straordinaria vita dedicata al Paese. E nessuno fiaterà per anni, sino al 19 novembre 1999, all’indomani delle dimissioni di Iotti da deputata, quindi appena due settimane prima della sua scomparsa, vittima di una somma di mali. Allora, senza neppure interpellarla, mi considerai sciolto dal vincolo e, a suo onore, rivelai la vicenda su “L’Unità”, il giornale da cui mi sarei allontanato di lì a pochi mesi. Nessuno smentì.

Considero tuttora questa storia uno degli atti più forti e fieri compiuti da Nilde Iotti nei tredici anni al vertice di Montecitorio, la prima donna comunista nella triade delle più alte cariche istituzionali della Repubblica. Anche e soprattutto perché questo episodio aveva una retrostoria, altrettanto significativa del personaggio, della sua forza serena, della sua determinazione. L’antefatto seguì di poco il successo del referendum sulla preferenza unica, giugno 1991. Mancava appena un anno alla conclusione naturale della decima legislatura, la terza della presidenza Iotti. Il segretario del Psi Bettino Craxi aveva approfittato di quel voto per teorizzare – lui, contrariamente al presidente del Consiglio, Giulio Andreotti – una pretesa delegittimazione del Parlamento, l’oramai famoso “parco buoi” (copyright Craxi), eletto con il vecchio sistema plurinominale. Sarebbe stata la fine anticipata della legislatura. Iotti non ebbe dubbi: anticipò il dubbioso presidente del Senato Giovanni Spadolini e si espose pubblicamente con un “no” intransigente allo scioglimento delle Camere. Un “no” dettato non per blandire l’interesse corporativo dei deputati (e dei senatori) ma per affermare il principio che la sorte e l’autorità di un’istituzione suprema come il Parlamento non possono, non debbono, esser piegate all’interesse contingente dell’una o dell’altra parte politica.

Vinse la partita, Nilde, anche contro il trasparente sostegno di Cossiga alla tesi di Bettino Craxi: e la vinse non da sola, certo, ma rafforzata dal rilevante suo peso istituzionale e dalla sua forte influenza politica. Ecco, di lì a qualche settimana l’indiscrezione sull’intenzione di Cossiga di nominare Iotti senatrice a vita. Un gesto di considerazione alta o, come qualcuno riterrà con perfidia, pari all’intensità delle polemiche e delle tensioni tra i Palazzi, un “promoveatur ut admoveatur”? Ecco il senso e la ragione del biglietto vergato e spedito senza che i suoi collaboratori avessero neppure il tempo di farne una fotocopia indispensabile, anzi preziosa, per l’archivio.

Credo che in questi due lampi di memoria sia racchiusa buona parte del senso e dell’autorevolezza della vicenda politica di Iotti presidente, la cui prima elezione al vertice della Camera si ricorda esattamente in questi giorni: il 20 giugno di quarant’anni fa, nel 1979. Già, ella aveva perfetta contezza dell’importanza della decisione, presa da Enrico Berlinguer allora segretario del Pci, di designare una donna al vertice del Montecitorio, un’esponente di primissimo piano delle battaglie delle donne per la loro emancipazione: Nilde non fu mai una femminista ma lottò sempre per la reale parità, con un coraggio da tigre (basti pensare alla sua dura lotta, anche in seno al partito, per convincere che prima le leggi e poi i referendum su divorzio e aborto sarebbero stati vincenti). Ma ella aveva altrettanto perfetta contezza dell’arduo cimento che l’attendeva: essere la presidente comunista di un’assemblea che teneva il Pci all’opposizione.

Iotti del resto non perse tempo a far capire che considerava la presidenza della Camera non come un trampolino ma come un fine: per portare avanti vecchie e nuove battaglie da una posizione oggettivamente di assoluto rilievo e quindi di sicuro ascolto. Così, alle viste di una delle prime uscite ufficiali, a Piombino per la consegna della medaglia d’oro alla Resistenza, riunì i più stretti collaboratori e disse, lei che aveva vissuto da protagonista la Costituente: « È ora di affrontare il nodo delle riforme costituzionali». Prese un foglio, davanti a noi sorpresi per l’inedita sortita, e vergò sicura alcuni punti con la sua grafi ampia e chiara: basta con questo assurdo bicameralismo perfetto, basta con mille parlamentari («Come la Cina, ma loro sono un miliardo e mezzo»), federalismo istituzionalizzato trasformando il Senato in Camera delle regioni e dei poteri locali: «Perché il Senato non potrebbe essere come il Bundesrat tedesco?». Fu la prima a parlare concretamente di riforme e ad indicarne alcune: ci tornerà ancora, quando, non più al vertice di Montecitorio, presiedette l’ultima commissione bicamerale per le riforme. E le riforme e i regolamenti parlamentari sarebbero stati per lei un continuum nel tempo, come aveva annunciato nel discorso d’insediamento: «Affrontare quelle parti della Costituzione che il tempo e l’esperienza hanno dimostrato inadeguate…», «tutelare in primo luogo i diritti delle minoranze ma anche il diritto-dovere delle maggioranze di legiferare…».

Proprio quest’ultimo passaggio, più tardi, le costò, mettendo persino a rischio il suo ruolo. Ma tenne sempre duro, malgrado i borbottii, le riserve, i giudizi non propriamente sereni che talora le giunsero quando parve che la sua conduzione dei lavori della Camera fosse troppo – come dire? – indipendente e rispettosa di principi per lei essenziali. Questo accadde soprattutto nel passaggio più difficile di quei tredici anni: lo scontro (tra il febbraio e il maggio del 1984) sul costo del lavoro, la dinamica salariale, il meccanismo della scala mobile, le famose “20 mila lire” tolte con il congelamento dei tre punti di contingenza. Momento difficile per la concomitanza di due fattori: la rottura tra il presidente del Consiglio Craxi da un lato e l’opposizione di sinistra e la Cgil dall’altro; e, in parallelo, una pesante frattura all’interno del Pci che coinvolse il segretario Berlinguer, Nilde Iotti e Giorgio Napolitano, allora presidente dei deputati comunisti. Su una materia sino ad allora delegata al negoziato e all’accordo tra le parti sociali, Bettino Craxi volle intervenire con un decreto legge immediatamente esecutivo salvo naturalmente la conversione in legge da parte delle Camere. E se, ad un gesto di decisionismo così estremo e alla sfida così aperta alla Cgil, il Parlamento reagì bocciando quel decreto nel segreto dell’urna, il leader socialista ripresentò lo stesso identico decreto (più tardi la Corte costituzionale, proprio di fronte allo sfacciato abuso craxiano della decretazione d’urgenza, emanò una salutare sentenza che vietava la pratica dei decreti-fotocopia), e vi pose addirittura la fiducia che si traduceva nella mannaia di tutti gli emendamenti.

Racconterà Giorgio Napolitano che «Iotti arbitra difficili accordi tra i gruppi di maggioranza e di opposizione per permettere a questi ultimi di dispiegare le loro proteste e il loro dissenso ma, insieme, per evitare che decada anche il secondo decreto: per garantire cioè – punto cardine della sua concezione – il diritto-dovere della maggioranza di legiferare (…). La leadership del Pci (cioè in primo luogo Berlinguer, ndr) preme – annoterà ancora Napolitano con una precisione e una schiettezza impressionanti – perché l’iter del provvedimento non sia contenuto nei modi e nei tempi concertati nella conferenza dei capigruppo, con l’adesione anche del capogruppo comunista (cioè dello stesso Napolitano che scrive in terza persona, ndr), il quale è solidale con la Iotti dinanzi ad una pressione che ne mette a repentaglio la presidenza. Ella non cede, supera la prova, conduce la Camera al voto di conversione del decreto il 18 maggio 1984».

«La lezione è (o dovrebbe essere) chiara per sempre e per tutti», ne conclude Giorgio Napolitano rivendicando con trasparenti accenti polemici la coerenza sua e di Nilde: «L’opposizione può condurre la sua battaglia nei modi più duri, può ricorrere all’ostruzionismo ma per rappresentare al Paese le sue ragioni, la sua protesta, e per suscitare una riflessione, un ripensamento nella maggioranza, ma non per impedire che si giunga alla decisione, che ci si conti, che si legiferi, altrimenti si colpisce il ruolo e la credibilità del Parlamento, si minano la basi delle istituzioni democratiche».

Torno, per concludere questa noticina, ad un episodio simbolico della donna che sempre si batté per i diritti delle donne. E lo aveva fatto sin dalla Costituente: epica era stata la sua battaglia per imporre la parità di genere anche in magistratura, sino alla Cassazione, contro un futuro capo dello Stato, Giovanni Leone, che sosteneva esser le donne ammissibili “al massimo” nei tribunali dei minorenni. Era l’estate del 1987, un anno prima della scadenza naturale della legislatura per la rottura dell’alleanza di centro-sinistra. Il precipitare degli eventi rischiava di compromettere una piccola ma preziosa riforma cui Nilde, e non solo lei, teneva moltissimo. Gli è che la legge del 1970 prevedeva almeno cinque anni di separazione legale per ottenere il divorzio. Lunga trattativa con il centrodestra e accordo di compromesso per una riduzione da cinque a tre anni della separazione (Iotti avrebbe voluto un anno soltanto, ma a ciò si giunse solo dopo la sua morte). Approvata dal Senato, la leggina era ferma in commissione alla Camera, ma da un momento all’altro il capo dello Stato avrebbe sancito la fine della legislatura e il provvedimento sarebbe finito in malora. Allora Iotti convocò d’imperio la commissione, ottenne l’unanimità dei gruppi perché questa deliberasse in sede legislativa (cioè “saltando” il momento della discussione e del voto in assemblea) e strappò sul filo di lana, il “sì” finale e definitivo.

Ne fu tanto, tanto felice, lei che nel 1975 aveva redatto e fatto approvare la riforma profonda del diritto di famiglia. Sono passati anni, stagioni, epoche. Ora ricordiamo i quarant’anni della sua prima elezione a presidente. Nella notte tra il 3 e il 4 del prossimo dicembre saranno vent’anni dalla sua sofferta scomparsa in un’appartata clinica tra il Lazio e l’Abruzzo…

L’articolo è pubblicato anche su Strisciarossa, con il titolo In ricordo di Nilde Iotti, prima donna presidente della Camera.