ATTUALITÀ SOLIDARIETÀ STORIE

La signora della stanza numero 9

DRIVING MISS DAISY, Jessica Tandy, Morgan Freeman, 1989.

 

GIUSEPPE CERETTI

«Le dispiace se le do del tu?»

Dal letto odo una voce, ferma, per nulla in sintonia con il corpo debilitato, un guizzo di istinto ironico che proprio non mi aspettavo.

«Per niente, ma a un patto: che anche io le dia del tu» rispondo stando al gioco.

Eppure me l’avevano descritta come un tipo piuttosto chiuso le infermiere dell’hospice, alle quali avevo chiesto il permesso di far visita alla signora malata della stanza numero nove.

Da qualche giorno le visite si sono improvvisamente diradate e lei non ha nessuna voglia di cibo.

Quale sarà la migliore strategia d’approccio? Mi chiedo dinnanzi alla soglia. Intanto mi preparo a una subitanea ritirata con scuse annesse.

Il suo sguardo ora si sposta da me al passato di verdura e ritorno. Non so chi dei due sia il più gradito. Il cucchiaio gira, come i suoi occhi che mi studiano. A parte i malanni, è chiaro che siamo due coetanei.

La signora G. ha un volto ancora bellissimo.

La sua è una vicenda fuori da ogni schema tradizionale. Ti immagini una donna sola, abbandonata, ma le cose non stanno così.

So che è madre di quattro figli, il marito è morto qualche anno fa. Soffre da qualche tempo di una grave malattia invalidante, in fase ultima. Non è affatto sola. I figli sono premurosi e a quel che mi dicono affettuosi. Ma da pochi giorni entrano in ospedale, chiedono di mamma. Se ne stanno in corridoio, parlano con i medici, ma poi se ne vanno, senza entrare nella numero nove.

Mi studia e io sto zitto, poco oltre la soglia.

Il volto si ravviva in quell’inatteso incontro con un perfetto estraneo. Mentre rimugino altre banalità da sussurrare, è lei che passa al contrattacco.

«Accomodati, non star lì impalato» il tono è dolce, educato, ma la sostanza è in un’osservazione che mi par di cogliere implicita in quello sguardo: «Sei un volontario e allora? Comportati come si deve».

«Piacere signora… scusa, volevo dire: come stai?»

«Tu non vuoi sapere come sto – mi risponde pronta – perché questo te lo hanno già detto prima d’entrare. Vuoi sapere perché da tre giorni i miei figli non entrano in questa stanza anche se so che fanno una fatica terribile e pure io.. Non è che il tempo abbondi per me»

«Me lo dica lei…»

«Ma non avevamo deciso per il tu?»

«Bene, perché? Mi pare tutto così assurdo, c’è tanta gente sola…»

«Tu hai figli?»

«Una».

Non mi dà tempo di aggiungere altro

«Siediti. Ti spiego e ti anticipo che oggi li farò entrare».

«Allora me ne vado. Hai ben altro che chiacchierare con un estraneo».

«Tu non sei un estraneo, sei un volontario. E poi estraneo è sbagliato due volte. Un volontario non è un estraneo per definizione. Diciamo che sei una persona che conosco solo ora. D’accordo? Non é la stessa cosa, c’è una bella differenza».

Mi metto a lato con un moto d’imbarazzo che mi spinge ad occupare la sedia di traverso, pronto a scattare in piedi.

«Vedi, il mio corpo  ed io ci siamo sempre rispettati nelle reciproche funzioni e dignità – mi guarda dritto negli occhi e ora rispondo allo sguardo allo stesso modo, come mi trovassi di fronte a una cara amica –. Vederlo ora trafitto da tubi e fili lo vivo come un’ingiusta e immeritata violenza. Nel primo periodo della malattia ho cercato di pensare solo ai figli».

«Certo, i figli, hai litigato con loro, perché, mi hai detto che…»

Non mi lascia il tempo di concludere

«Due figli ritengono come me che una vita lunga, tanto intensa, meriti un compimento naturale e sereno. Gli altri due mi vogliono qui a tutti i costi sino in fondo. Ma quale madre trattengono se la mia voce profonda dice di andare? Credimi, è stata una decisione difficile».

Che vuol dire è stata? Quindi ha già deciso. Resto zitto per un po’ e se anche aprissi bocca sono certo non uscirebbe alcun suono decifrabile. Poi abbozzo.

«Loro sanno che…»

«Che… che cosa? Ho capito che non hai capito. Ho deciso di continuare».

«Chi ha prevalso?»

«Diciamo che cosa ha prevalso. L’amore materno e l’offerta della dignità del mio corpo».

«Ma da quel che mi hai detto, avevo capito…»

«Sono stata incinta quattro volte e so bene che cosa vuol dire sopportare dolori, fatiche, quando pare che la schiena si spezzi. Ma a quel tempo ero io che decidevo per un scopo: consegnare al mondo una donna e un uomo forti. Lo scenario della morte cambia tutto. Il nostro corpo passa di mano in mano, come se diventasse proprietà d’altri».

«Perché allora continuare, se la ragione ti spinge in altra direzione?»

«Chissà se quest’ultimo dono materno, il più difficile per me, possa tradursi in un bene per il futuro delle famiglie che lascio. In fondo pensarli sereni è tutto ciò che desidero».

«Ammiro la tua forza» è tutto ciò che mi viene anche se non è tutta la verità.

Risponde con un sorriso, mentre le sfioro la mano e lascio la stanza numero nove.

No, non ho mai voluto sapere come abbia vissuto quel po’ di tempo in più.

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