CRITICA FILM

La “vecchia” Hollywood di Tarantino

Il nuovo straordinario film di Quentin Tarantino, "Once Upon a Time in Hollywood" ("C'era una volta a Hollywood") è uscito nelle sale italiane il 19 settembre. Con un cast stellare, si annuncia come il film dell'anno, il nono di Tarantino e, stando alle sue dichiarazioni, potrebbe anche essere l'ultimo

Eccolo Once Upon a Time in Hollywood, il nuovo straordinario film dell’irriverente Quentin Tarantino, il cinefilo mai cresciuto del tutto. Le star sono Leonardo Di Caprio, papabile di Oscar, e Brad Pitt, all’apice della sua rocciosa bellezza e del suo carisma attoriale, attorniati da ispirati comprimari, in primis Margot Robbie nel ruolo della sfortunata attrice Sharon Tate, e da sorprendenti camei, primo su tutti quello di un irriconoscibile Pacin.

Il film è ambientato nel 1969 della conurbazione losangelina divenuta ormai sede un po’ decadente dell’industria dei sogni di Hollywood, che ormai lontana dalla sua età d’oro inonda l’America di telefilm spazzatura e il mondo di pellicole sempre più ciniche e disilluse; la ricostruzione di costumi e scenari, aiutata dalla regia eccelsa, regala un viaggio nel tempo che rallenta solo verso la metà, per poi andare in fuga nella seconda parte verso il finale catartico.

La trama s’incentra su due personaggi immaginari, ovvero l’umorale attore dalle alterne fortune Rick Dalton (Di Caprio) e il suo migliore amico, il flemmatico stuntman Cliff Booth (Pitt); il primo cerca di lasciarsi alle spalle gli sceneggiati televisivi in cerca di grandi orizzonti sullo schermo d’argento, il secondo vuole dimenticare un passato non troppo chiaro. Entrambi sono sostenuti e avversati da innumerevoli altri personaggi che affollano il caravanserraglio perenne della società americana contemporanea, che persino nella sua incarnazione più patinata e ambiziosa, come l’industria dello spettacolo, rimane frontiera crepuscolare, spietata e melanconica. Intrecciata alle alterne fortune dei due vitelloni, si snoda anche una rappresentazione poetica dell’idillio fra Roman Polanski e Sharon Tate, ritratto con una sensibilità che risulterà sorprendente a chi non comprende davvero la finezza di cui Tarantino è capace.

Su queste due vicende, una inventata e l’altra realistica, aleggia un’ombra spettrale che diventa sempre più opprimente durante tutto il film, ovvero quella della Manson Family, la setta che ha rappresentato la parte più degenerata e autenticamente totalitaria del fenomeno hippy californiano e della controcultura americana degli anni Sessanta; senza nessun romanticismo, le ragazze e i ragazzi plagiati da Charles Manson appaiono prima come folletti imperscrutabili e poi come criminali freddi ed enigmatici, simili ai cattivi di uno spaghetti western o di un film horror anni Settanta, coscienti nel loro zelo omicida.

Per Tarantino, la “Family” di Manson è solamente un altro branco di assassini ipocriti e sadici, che millantano superiorità morale o umana esattamente come i gangsters, gli schiavisti e i nazisti apparsi in tutti i suoi altri film. Tarantino ci ricorda cosa è il cinema, cosa è la narrativa e cosa è il male come scelta dell’uomo. C’era una Volta a Hollywood è il film dell’anno e tutti dovrebbero vederlo.