DAILY LA PAROLA

Liberazione

La parola liberazione, il 25 aprile e la memoria della Resistenza

La Liberazione, a casa mia, sta tutta in una vecchia foto. Due soldati americani con lunghi moschetti a tracolla entrano nella piazza dell’antico paese. Sono appena ragazzi, circospetti e ammutoliti, come sono ragazzi i partigiani che li accompagnano, con le giacche stazzonate e gli occhi accesi. Corrono, si guardano, nascondono vecchie rivoltelle nelle tasche sformate, uno di loro porta un fiasco di vino sotto braccio. Come una festa di campagna: tanto splendore sulle antiche pietre medievali, tanta giovanile meraviglia per la libertà improvvisamente ritrovata.
Anche qui, in questo angolo della Maremma toscana, la libertà arrivò al termine di un “lungo viaggio nella notte.” Nove mesi prima, il 13 giugno, reparti tedeschi e squadracce mussoliniane avevano fatto irruzione nel piccolo borgo minerario di Niccioleta per punire disertori e renitenti alla leva fascista. Sei minatori vennero fucilati subito, alle spicce, nel cortile dietro il forno della dispensa. Altri centocinquanta caricati sui camion e portati a Castelnuovo Val di Cecina: il giorno dopo, settantasette di loro furono fucilati davanti a una fossa comune.

Non ci fu nemmeno il tempo per piangere i morti e già la guerra era finita, con il lutto dentro le case e la festa in piazza. Né eroi, né martiri: come la foto che ricordo, anche la vera Liberazione – se dovessimo definirla oltre questo profondo crepaccio di anni – è prima di tutto nemica della retorica. Eppure oggi – 25 aprile 2019 – sarà giorno di retorica a fiumi, di bandiere che “garriscono” al vento, di eroismi giovanili e di discorsi alati. Del resto, tra i tanti peccati con cui siamo abituati a convivere, questo è un peccato appena veniale: se la retorica è il biglietto da pagare per mantenere vivo il ricordo, ebbene sia benvenuta anche la retorica.

In questa nostra Italia degli orrori, dove un intero quartiere di dimenticata periferia caccia a furor di popolo qualche decina di disperati in cerca di un tetto, il ricordo della Liberazione rischia di essere un lusso per pochi e un inciampo fastidioso per provvisorie autorità dedite alla ferocia quotidiana e al vituperio della memoria e della conoscenza.
Dunque, pazienza: in questo giorno anche noi sventoleremo la nostra bandiera e sopporteremo ardui discorsi da reduci: sarà la nostra piccola resistenza, il nostro antidoto personale contro l’ignoranza e la miseria dell’anima.
Una nostra fratellanza non detta, come – nelle parole del grande scrittore – la festa del mio borgo di Maremma è gemella della festa nella città di Alba imbandierata: «sfilarono i badogliani con sulle spalle il fazzoletto azzurro e i garibaldini con fazzoletto rosso e tutti, o quasi, portavano ricamato sul fazzoletto il nome di battaglia. La gente li leggeva come si leggono i numeri sulla schiena dei corridori ciclisti; lesse nomi romantici e formidabili, che andavano da Rolando a Dinamite. Con gli uomini sfilarono le partigiane, in abiti maschili, e qui qualcuno tra la gente cominciò a mormorare: – ahi, povera Italia! – perché queste ragazze avevano delle facce e un’andatura che i cittadini presero tutti a strizzar l’occhio».

In quella piazza della nuova Italia c’era anche mio padre: un contadino di ventidue anni che non volle indossare la camicia nera, fuggì alla macchia a mani nude e diventò partigiano con il fazzoletto rosso al collo. La storia di quel vecchio ragazzo è anche la mia storia.