CRITICA MOSTRE

L’umanità vista con gli occhi della Pietas

Narrare il mondo, le connessioni quotidiane dei gesti; raccontare storie, minime ma eversive, nella loro apparente semplicità: la videoarte di Elisabetta Di Sopra scardina i luoghi comuni, vive nell’intervallo tra lo scontato e l’eccezionale. L’artista, pordenonese di nascita, ma ormai veneziana d’adozione, collabora con l’Università Ca’ Foscari per lo Short Film Festival, con l’Archivio Carlo Montanaro, la Fabbrica del Vedere, il Festival Francesco Pasinetti (è curatrice del concorso di videoarte Maurizio Cosua) e l’Accademia di Belle Arti di Catanzaro. È inoltre docente presso il Master in Fine Arts in Filmmaking di Ca’ Foscari. Il suo lavoro – nitido, pulito, incalzante – rappresenta la miglior dimostrazione di come un’azione estetica possa, debba acquisire coscienza e valore politico. Anche quest’ultima esposizione di Elisabetta, Pietas, alla Bugno Art Gallery di Venezia fino al prossimo 5 dicembre, non smentisce le aspettative.

La mostra, curata da Daniele Capra, raccoglie una dozzina di opere – video e stampe fotografiche – di tre recenti progetti dell’artista. Se un filo conduttore si può individuare, è sicuramente la condizione umana nei suoi atti di dolore, di fragilità, incommensurabili e preziosi.  Nel primo lavoro, l’opera a due canali The care, una donna – di cui non s’intravvede mai il volto – si prende cura alternativamente di un neonato e di un corpo adulto che tiene tra le braccia. L’unico fraseggio sonoro è quello dell’acqua che pulisce, accarezza, lenisce. Lo spaesamento, nell’esposizione di un atto tanto comune, è immediato: denuncia sociale, dato di fatto, acquisizione di una consuetudine in cui è sempre la donna ad accudire, a scandire i ritmi, ad assumere l’altro come parte di sé.

Lo scorrere del tempo e l’impercettibile devianza delle sorti sono soggetto del video a tre canali Dipendenza Sensibile, in cui un pugile ormai ottantenne non smette di allenarsi, in un moto di feroce e disperata ribellione, con abnegazione ossessiva. Sui monitor laterali, nel frattempo, scorrono immagini della natura  che segue il proprio corso, con implacabile lentezza. Il titolo fa riferimento alla teoria della “dipendenza sensibile dalle condizioni iniziali” che, in matematica e fisica, spiega come – in un sistema caotico – variazioni infinitesime delle condizioni di partenza possano produrre variazioni inaspettate e significative nel futuro. Quella del pugile assume così i contorni di una sfida al decadimento del corpo, assieme titanica e destinata alla sconfitta.

Tuttavia, soprattutto il video Pietas che dà il titolo alla mostra – parte integrante del progetto Ceilings. Medea, un’opera multimediale performativa a cura di Giovanni Carpanzano, promossa e organizzata dall’Accademia di Belle Arti di Catanzaro – rappresenta pienamente l’intenzione di Elisabetta Di Sopra: trasformare posizioni precostituite, laddove il pensiero diventi agire concreto. Anche qui, la  variazione degli assunti di base spiazza e trasforma: sulla riva del mare, una Medea anziana (non esente da fascinazioni pasoliniane), interpretata magistralmente da Fiora Gandolfi, va alla ricerca di abiti e tracce dei figli perduti, sulla battigia, fra le dune. Non la follia, non la vendetta che anima lo sguardo di Maria Callas, ma il dolore del distacco, lo struggimento della lontananza, la paura della morte. Di Sopra riscrive il mito di Medea, purificando la sua figura dalla colpa di aver ucciso i propri bambini per vendicarsi del tradimento di Giasone, come narra Euripide.

Laddove Pier Paolo Pasolini chiede al fotografo Mario Tursi di catturare, nel volto della Callas, la visione del terribile, l’artista evidenzia nella sua Medea il tormento della perdita: è un rinvio preciso alla sorte di tante madri che hanno pianto e piangono i figli inghiottiti dal Mar Mediterraneo, mentre tentano di attraversarlo. A suo modo, il quotidiano – Pietas parla alla coscienza con intensità pari alla resa estetica, alla cura dei dettagli – può essere altrettanto terribile del mito. La capacità filmica di Elisabetta opera lo scarto, nel rapporto tra segno (focus centrato su un personaggio, pulizia formale, precisa dinamica d’inserimento spaziale) e senso: quel corpo, per lo più femminile o colto nella sua valenza plurima, è custode dell’essenza, del fondamentale. Senza effetti, senza piaggerie: un’opera in chiaro.