Dall’inglese newspeak, è un termine la cui paternità spetta a George Orwell. In quel capolavoro che è il romanzo 1984, fa parte di una delle principali tecniche di controllo di cui si serve il Grande Fratello per eliminare ogni forma di pensiero dissidente.
La neolingua dello scrittore inglese contiene termini assolutamente futuristici per l’epoca (siamo negli anni Quaranta): psicopolizia, psicocrimine, buonsesso e sessoreato. Ma contiene anche una parola come teleschermo, ormai entrata di prepotenza nel nostro lessico quotidiano già dalla metà del secolo scorso.
Come la questione della neolingua sia sempre aperta, lo dimostra il dibattito acceso nell’aprile 2019 in occasione della pubblicazione del libro di Dorian Lynskey di “The Guardian”, dedicato ai 70 anni del romanzo (The Ministry of Truth: A Biography of George Orwell’s 1984). Lynskey scrive che ogni epoca ha reinterpretato il monito del grande autore britannico secondo le proprie paure. Negli anni Cinquanta e Sessanta il romanzo di Orwell pareva descrivere esattamente i meccanismi occulti del totalitarismo stalinista. Negli anni Ottanta metteva in guardia dal potere invasivo delle nuove tecnologie.
Attualmente, Lynskey crede di rivedere il mondo raccontato da Orwell nell’America di Donald Trump e nel suo modo di «esercitare il potere attraverso la distorsione della realtà». Di parere opposto è invece Mike Hume della rivista radical “Spiked”. «Oggi – dice Hume – il Grande Fratello di Orwell non si rivede in Trump, nella Brexit o nei cosiddetti populisti spacciatori di fake news. È l’intellighenzia liberal nel suo universale disprezzo per le masse a mostrare un tratto particolarmente orwelliano. Ovvero, conformismo politico privo di senso critico e intolleranza verso le visioni alternative o eretiche». E la querelle sulla neolingua potrebbe continuare all’infinito.