Giorgio Frasca Polara per lungo tempo è stato cronista parlamentare de “L’Unità”, dove ha lavorato per quarantatré anni: dal 1957, “ragazzo di bottega” nella redazione siciliana, fino al 2000, quando ha abbandonato di sua volontà il giornale, in seguito alla sua privatizzazione. Oggi si sente «un apolide di sinistra che ha lasciato il partito con la nascita del Pd». Dopo l’esperienza siciliana, nel 1975 diventa cronista parlamentare per il quotidiano del Pci e da qui segue le principali vicende della politica italiana. Qualche anno dopo, la prima presidente della Camera dei deputati, Nilde Iotti, lo nominerà suo portavoce. In seguito alternerà l’attività di giornalista, collaborando con varie testate, con quella di scrittore.
Dopo l’esperienza nel giornalismo a livello locale e regionale, sei diventato giornalista parlamentare nel 1975. Come sono cambiati la politica e i politici nel tempo?
Il mutamento è stato profondo ed è avvenuto in due fasi. Non solo in quel periodo che di solito è citato – il passaggio tra la Prima e la Seconda Repubblica – ma, anche, in quest’ultima fase della politica italiana che va dalla metà della Seconda Repubblica a oggi. Nel primo caso si è passati da uomini e donne che avevano una cultura profonda, non soltanto politica ma generale. Il parlamentare medio, di qualsiasi partito fosse, era cresciuto con delle regole precise in organizzazioni molto strutturate e che erano esse stesse garanzia di preparazione e una sicurezza nella scelta della classe dirigente. Ad esempio, Antonello Trombadori del Pci era un profondo conoscitore dei versi di Gioacchino Belli e li recitava a memoria. Alessandro Natta, capogruppo del Pci e poi segretario nazionale, era un buon latinista. E non era il solo. Paolo Bufalini era un traduttore di Orazio. E poi il leggendario segretario del gruppo comunista a Montecitorio, Mario Pochetti, il quale si divertiva a correggere gli strafalcioni dei colleghi. Come nel 1988, quando in occasione della presentazione alla Camera del programma del governo di Ciriaco De Mita, il leader socialista Bettino Craxi recitò solennemente, rivolgendosi al presidente del consiglio, che programma e governo «simul stabunt, simul cadunt» e dai banchi del gruppo comunista Pochetti replicò «cadent, Craxi, cadent».
E che cosa nota della classe politica di oggi?
A poco a poco la scarsità di preparazione ha dilagato. Quel che è peggio è che l’ignoranza a cui assistiamo quotidianamente non è soltanto quella dei gregari ma degli stessi leader politici. Una degenerazione che inizialmente era molto lenta, con il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, e che oggi, con l’avvento in particolare del Movimento cinque stelle, ha accelerato. Attualmente ci troviamo con una generazione di dirigenti politici senza cultura, senza memoria e senza regole, cresciuta molto lontano dalla vita strutturata di partito. Penso tuttavia che uno degli aspetti peggiori della classe politica che oggi ci governa sia la facilità con cui i politici passano da un partito all’altro. Accadeva anche nella Prima Repubblica, ma spesso all’epoca dietro la scelta di abbandonare il proprio partito c’era un vero e proprio dramma politico. E comunque non erano così frequenti. Oggi invece è molto diverso. Come ad esempio la recente decisione di Matteo Renzi di creare un nuovo partito, Italia viva, dopo la formazione del governo e dopo aver piazzato ministri e sottosegretari in quota Pd. È una degenerazione dei comportamenti politici che investe seriamente gran parte della politica italiana.
Quale era la relazione tra giornalisti e la politica durante la Prima Repubblica?
I politici della Prima Repubblica erano più prudenti con i giornalisti. O almeno lo erano quando erano in Parlamento e sentivano tutto il peso della responsabilità dell’incarico pubblico che rivestivano. Senso di responsabilità che oggi purtroppo manca. Ricordo un episodio di Emilio Frattarelli, storico giornalista antifascista, allievo di Giovanni Amendola e autore di una delle “veline” delle Prima Repubblica. Frattarelli era solito sedere su un divano del Transatlantico, che era la sua vera e propria redazione, e là fermava i vari dirigenti politici. Un giorno, a uno stimato ministro degli esteri democristiano, Attilio Piccioni, che passava di là, Fratterelli chiese conferma di una notizia sul Aldo Moro. Piccioni rispose con due-tre colpi di tosse e si allontanò. Poi ritornò sui propri passi e sussurrò a bassa voce al giornalista «mi raccomando, Frattarelli, discrezione».
E questa relazione tra giornalismo e politica come si è trasformata?
Oggi, molto spesso, si parla dei giornalisti in relazione alla creazione di contenuti falsi, le famose fake news. È vero che la pubblicazione di sussurri e frasi anonime sono pericolosi e penso sia un errore commesso da parte di chi scrive queste cose. Però oggi chi crea soprattutto le fake news sono i politici e i partiti politici. E mi pare un passaggio rilevante per il nostro sistema politico. Propongo un esempio recente. Qualche giorno fa, in occasione della decisione della riduzione del numero dei parlamentari, il blog del Movimento cinque stelle ha pubblicato delle dichiarazioni dell’ex presidente della camera Nilde Iotti, in cui effettivamente Iotti sosteneva la riduzione del numero dei parlamentari. Qui però è stata fatta un’operazione che, anche per ragioni di vita professionale e personale, non esito a definire come una mascalzonata. È vero che Nilde Iotti fece quelle dichiarazioni ma sono stata estrapolate dal discorso dell’ex presidente che inseriva la diminuzione del numero dei parlamentari all’interno di una riforma ampia delle istituzioni, riforma che avrebbe dovuto comprendere, tra le altre cose, la fine del bicameralismo perfetto e la trasformazione del Senato nella camera delle regioni e delle autonomie locali.
Nella tua esperienza professionale, c’è stato un politico che aveva maggiore capacità di trattare con i giornalisti?
In realtà più d’uno. Cito, a titolo di esempio, Ferdinando Di Giulio, che fu capogruppo alla Camera del gruppo comunista. Di Giulio possedeva alcune caratteristiche che lo rendevano particolarmente ricercato dai giornalisti: la sua scioltezza, la sua ironia e una certa disinvoltura lo portavano a confrontarsi amichevolmente con i giornalisti. Seduto sulla sua poltrona in Transatlantico, attorno a lui si formava un capannello di giornalisti, di destra e di sinistra, che cercavano di ottenere informazioni sulla situazione politica del momento e sulle novità librarie, a cui Di Giulio era particolarmente attento. Tra i leader di partito vale la pena di ricordare Giovanni Spadolini che era un fiume in piena di parole con i giornalisti, in ogni occasione e in ogni momento. Retaggio del suo passato di giornalista. C’erano allora molte disponibilità a intrattenere dei rapporti con i giornalisti. Oggi, se vogliamo, ce ne sono forse troppe e in forma più insidiosa.
Che cosa intendi dire?
Spesso oggi l’intervista ti è negata ed è stata sostituita dagli strumenti che le nuove tecnologie mettono a disposizione: sms, whatsapp, Facebook, Twitter. Le dichiarazioni vengono fatte attraverso questi mezzi impersonali e immediati, che in effetti costringono i giornalisti ad inseguire la notizia.
E per quanto riguarda i leader dei partiti politici maggiori, quanto erano avvicinabili?
Tutti i politici che contavano – e non parlo necessariamente dei leader di partito o di chi ricopriva ruoli di governo – erano attentamente selettivi. Sapevano a chi volevano rilasciare alcune interviste. E l’attenzione che molti di loro avevano per i dettagli raggiungeva talvolta livelli molto alti. Un campione della rilettura e della correzione fino alle virgole era ed è Giorgio Napolitano. Un giorno, rileggendo una dichiarazione che mi aveva rilasciato, mi disse «qui ho fatto una pausa» e aggiunse subito dopo «ci vorrebbe una virgola». C’era anche chi lasciava molta libertà al giornalista, purché questo non scrivesse qualcosa di sbagliato. In quest’ultimo caso, il giornalista era regolarmente smentito. Ovviamente non tutte le dichiarazioni riportate dai giornalisti erano il frutto di interviste. Alcuni, quelli che oggi chiamiamo i retroscenisti, erano in grado di raccogliere letteralmente dietro la porta o sotto il tavolo da pranzo – è accaduto anche questo – frasi o ragionamenti politici che poi riportavano e pubblicavano. Questo però non accadeva con il Pci.
Perché non accadeva?
Le riunioni del comitato centrale del Pci erano rigorosamente riservate. I soli ammessi a scrivere i resoconti erano i giornalisti de L’Unità, chiamati appunto “resocontisti”. Per molti anni ho svolto il ruolo di capo redattore della squadra dei resocontisti e il nostro compito era quello di scrivere una cartella e mezza per il membro ordinario del comitato centrale e tre cartelle per i membri della direzione, che avevano anche diritto a rileggere e correggere il resoconto. Quest’ultimo veniva poi trasmesso all’ufficio stampa del partito che si preoccupava di distribuirne le copie ai giornalisti. Quindi per anni non è trapelato nulla di diverso dal resoconto ufficiale. Le regole si sono allentate nella trasformazione del Pci nel Pds.
C’era competizione tra i giornalisti parlamentari durante la Prima Repubblica?
La competizione esisteva ovviamente ma era più sottile e più monopolizzata. Ad esempio l’avversario storico di Emilio Frattarelli fu un giornalista a cui, con qualche ragione, era stata attribuita l’etichetta di “giornalista governativo”. Si trattava di Vittorio Orefice. Orefice, caso unico nella storia del giornalismo italiano, aveva due contratti: uno con la Rai e l’altro con l’Agenzia Italia, fondata e finanziata dall’Eni. Appariva quindi come commentatore politico nel telegiornale della sera e contemporaneamente era il responsabile della redazione politica dell’agenzia di stampa. Come Frattarelli anche Orefice scriveva una velina che era letta ed era oggetto di dibattito politico quotidiano. Erano molto spesso veline a carattere governativo ma importanti per capire che cosa accadeva. Ricordo che la dettava al telefono dalla sala stampa di Montecitorio ad una signora in un ufficio, posto fuori dalla Camera. La signora non capiva spesso le parole al telefono e quindi ogni tanto si poteva sentire Orefice gridare al telefono «signora, De Mita, signora, De-Mi-ta». Questa velina di Orefice orientava gran parte del dibattito politico. La sua capacità di influenzare i giornali soprattutto negli anni plumbei del giornalismo era enorme: un’inchiesta de L’Europeo nel 1975 dimostrò che i cosiddetti “pastoni” dei principali quotidiani – quei pezzi in cui si mescolavano partiti, aule e commissioni – riprendevano e riportavano spesso frase per frase, parola per parola, le veline di Orefice. L’eco dell’inchiesta fu clamorosa in parlamento ma Orefice ne fu contento e orgoglioso, anche se il suo nome non veniva mai citato nei pezzi che riportavano la velina.
Perché i giornalisti parlamentari hanno generalmente dato più spazio a quello che accadeva alla Camera rispetto al Senato?
Il primo motivo è che i leader politici si sono sempre fatti eleggere alla Camera. Sino a quando al Senato non c’è stato alcun leader politico, l’attenzione era secondaria. Tranne in occasione dei grandi dibattiti sulle questioni rilevanti. Da quando, tuttavia, Matteo Salvini e Matteo Renzi sono senatori, anche il Senato comincia ad acquisire attenzione da parte dei cronisti politici. L’altro motivo è che la sala stampa per eccellenza è quella della Camera ed è uno dei poli di attrazione, da sempre.
Oggi i giornalisti parlamentari seguono diversamente i lavori delle aule?
C’è in generale molto disinteresse per i lavori parlamentari. Qualche giorno fa, quando è stata approvata la riduzione dei parlamentari, i giornalisti si occupavano più della vergognosa sceneggiata fuori da Montecitorio, organizzata dal Movimento cinque stelle, piuttosto che occuparsi di quello che accadeva in aula. Bisogna aggiungere anche che non esiste più una tribuna stampa: i giornalisti che seguono i lavori parlamentari, delle aule e delle commissioni, lo fanno dal loro tavolo della sala stampa – ogni testata ha la propria postazione – e attraverso le immagini che vengono trasmesse a circuito chiuso.
Tu sei stato anche il portavoce di Nilde Iotti, quando era presidente della Camera dei deputati. Hai quindi vissuto l’altro lato della relazione tra giornalismo e politica. Che cosa pensi della figura attuale dei portavoce, o come vengono chiamati oggi, degli spin doctors?
Innanzitutto partiti e organismi che abbiano dei portavoce non esistono più, praticamente. I partiti prediligono, quasi tutti, il messaggio via social, scavalcando i responsabili dell’informazione. Un’eccezione è la figura di Rocco Casalino, che ha un notevole potere rispetto al ruolo di responsabile dell’ufficio stampa della presidenza del consiglio. I portavoce invece dei leader politici mi sembrano nella media piuttosto corretti. In alcuni casi non c’è nemmeno bisogno del portavoce: Matteo Salvini comunica direttamente via social il suo messaggio, spesso spiazzando i giornalisti.
Secondo te il giornalismo italiano ha qualche responsabilità, per il modo in cui ha descritto la vita politica parlamentare, sulla deriva populista del paese?
Non credo a queste responsabilità della stampa. Ci sono tuttavia delle forme di giornalismo che hanno contribuito a diffondere una sorta di qualunquismo anti-parlamentare e anti-istituzionale: penso ad esempio al ruolo che ha avuto un libro come La casta di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella. Quel libro è stato uno strumento micidiale e ha avuto un ruolo notevole nella diffusione di una certa mentalità populista e agitatoria che ha fatto danni alla gestione della politica. Conservo anche dei dubbi rispetto ad alcuni strumenti che i giornalisti utilizzano oggi per raccontare la politica.
Quali?
In primo luogo l’uso del retroscena. Lo trovo sbagliato se serve a dire quello che formalmente non si dovrebbe dire. Se i giornalisti e il giornale hanno coraggio, dovrebbero dire e scrivere tutto quello che c’è da scrivere. Il secondo aspetto è legato al retroscena: l’uso sempre più frequente dell’anonimato. Per intenderci, sto parlando delle formule: “il ministro autorevole dice che”, “un parlamentare della maggioranza suggerisce che”. Si tratta di dichiarazioni e formule spesso vere, poiché realmente qualcuno ha detto ciò in maniera anonima. Qualche volta però sono dichiarazioni non vere e create da chi il retroscena lo scrive.
Il giornalismo politico esiste ancora e ha senso oggi?
Il giornalismo politico non esiste più. Sono scomparsi i partiti e quindi quel tipo di giornalismo non può ritornare. Tuttavia c’è un elemento nuovo poiché esiste un giornale che si è fatto partito: parlo de “La Repubblica”. Dal sequestro Moro in poi, la posizione del quotidiano influenza una parte del sistema partitico.
E per quanto riguarda “L’Unità”, pensi che ci siano possibilità di un ritorno?
Anche ci fosse un eventuale ritorno, penso che la forma giornale tradizionale de “L’Unità” sia tramontata da tempo e non possa più tornare. È un mutamento che non è avvenuto ora ma è cominciato un giorno dei primi anni Novanta. Mi ricordo che aprii, sotto forma di una lettera di un lettore, una polemica col quotidiano per cui lavoravo. Da un po’ di tempo, scrissi, non ci si rivolgeva più ad un dirigente di partito soltanto con il “tu”, come tra compagni si era sempre fatto per decenni: sempre più spesso lo si alternava con il “lei”. A tal punto era la stranezza che in due interviste a Nilde Iotti pubblicate a pochi giorni di distanza, in uno si usava il “tu” e nell’altro il “lei”, senza capire bene se fosse un “lei” per rispetto alla carica o come forma di distanza. Gli altri quotidiani ripresero la mia lettera e il direttore de L’Unità di allora, Walter Veltroni, si arrabbiò moltissimo. Ma quella lettera colse un cambiamento che stava avvenendo.
Che cosa pensi dell’attuale situazione del Partito democratico?
Penso che il Partito democratico sia sempre stato un ibrido. Il tentativo di mettere assieme due componenti che mai si sono fuse davvero. E le due scissioni che ha subito – a sinistra con la nascita di Liberi e uguali, a destra con la nascita di Italia viva di Matteo Renzi – ne sono la riprova.
Leggi l’articolo di Marco Michieli su Ytaly