DAILY LA PAROLA

Presepe

Claudia De Venuto e Gian Piero Frassinelli

Si fa un gran parlare, in questi giorni, del presepe. Qualcuno se lo porta sotto il braccio e lo esibisce al congresso del suo partito, poi sbraita contro quello di una scuola media, perché i ragazzini hanno voluto metterci una nave che salva i migranti nel mediterraneo e la sacra famiglia su una zattera.

L’uso politico del presepe è solo l’ultimo atto di una commedia che va avanti da mesi, nulla di nuovo, un altro tassello nella creazione di quel clima inospitale che l’Italia ha già vissuto durante la dittatura, culminato con le leggi razziali nel 1938 e le loro immani conseguenze.

Ci dice Wikipedia che il termine presepe deriva dal latino praesaepe, cioè greppia, mangiatoia, ma anche recinto chiuso dove venivano custoditi ovini e caprini; il termine è composto da prae (innanzi) e saepes (recinto). Il termine presepe è utilizzato, oltre che in Italia, anche in Ungheria, perché vi giunse via Napoli nel XIV secolo quando un discendente Angiò vi divenne re.

Anche se rappresentazioni della natività erano già presenti su sarcofagi di marmo paleocristiani del IV secolo, la tradizione del presepe nasce in Italia nel 1223, quando San Francesco d’Assisi, di ritorno da un pellegrinaggio in Palestina, volle ricreare l’aspetto di Betlemme nel paese di Greccio, che gliela ricordava. Da allora l’uso si diffuse prima nelle chiese, poi nel corso dei secoli anche nelle case. Napoli, Genova, Bologna in modo particolare sono le città in cui si creano i presepi, artigianato che si diffonde anche in tutta l’Italia centrale e in Abruzzo.

Da fine Ottocento è sempre più comune nelle case, e nemmeno l’albero di Natale l’ha soppiantato, per motivi non religiosi, ma antropologici: il presepe ci riporta all’infanzia, quando si faceva con i genitori o con i nonni, rispolverando tutti quei personaggi che tornavano alla luce dalla scatola in cui dimoravano per il resto dell’anno, con la capannuccia, il bue e l’asinello, e tutto il resto.