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Il quaderno dal carcere di Gildo

Scritto da Claudio Visani, ex giornalista de “l’Unità”, ora collaboratore di diverse testate e già autore di altre pubblicazioni, e da Viscardo Baldi, una vita dedicata alla politica, I comunisti nella terra dei preti è un libro che, attraverso le testimonianze dei protagonisti, racconta settanta anni di storia, dal 1921 al 1991, a Brisighella, il piccolo comune romagnolo noto per la bellissima rocca Manfrediana e la suggestiva via degli asini, e famoso per essere "la città dei cardinali" e "l'isola bianca" della Romagna comunista e Repubblicana. Per gentile concessione degli autori ne pubblichiamo alcuni stralci dal capitolo 8 dedicato a un “quaderno dal carcere”: quello di Ermenegildo Gildo Montevecchi, primo sindaco comunista della città.

Scritto da Claudio Visani, ex giornalista de “l’Unità”, ora collaboratore di diverse testate e già autore di altre pubblicazioni, e da Viscardo Baldi, una vita dedicata alla politica, I comunisti nella terra dei preti è un libro che, attraverso le testimonianze dei protagonisti, racconta settanta anni di storia, dal 1921 al 1991, a Brisighella, il piccolo comune romagnolo noto per la bellissima rocca Manfrediana e la suggestiva via degli asini, e famoso per essere “la città dei cardinali” e “l’isola bianca” della Romagna comunista e Repubblicana. Per gentile concessione degli autori ne pubblichiamo alcuni stralci dal capitolo 8 dedicato a un “quaderno dal carcere”: quello di Ermenegildo Gildo Montevecchi, primo sindaco comunista della città.

CLAUDIO VISANI – VISCARDO BALDI

[…] Ermenegildo (Gildo) Montevecchi è una delle figure più importanti nella storia del PCI di Brisighella: comunista della prima ora, perseguitato e incarcerato dal fascismo, protagonista della lotta di liberazione, primo sindaco comunista eletto in Comune. Gildo nasce l’11 dicembre 1900 a Strada Casale dove la famiglia Montevecchi è proprietaria di un ampio fabbricato in buona parte occupato dalla bottega di falegname ed ebanista del padre. La madre invece si occupa della casa e gestisce un piccolo commercio di latte e prodotti dell’orto. Una famiglia abbastanza agiata per quel periodo, composta dai genitori e da quattro figli. Gildo, dopo aver fatto le scuole di base, da ragazzo intraprende il mestiere del padre e impara anche a fare il barbiere: nei feriali lavora nella falegnameria e al sabato e alla domenica taglia barbe e capelli. Evita per un niente la Grande Guerra – che dopo la disfatta di Caporetto vide la chiamata alle armi dei “ragazzi del ’99” – va soldato nei bersaglieri e una volta finita la leva torna a casa. Qualche anno dopo si sposa con Ada Cappelli da cui ha, nel 1933, l’unica figlia: Antonietta.

[…] Gildo faceva propaganda e si batteva contro il fascismo. Una volta, assieme a un comunista di San Martino, aveva anche progettato un attentato, che poi fallì. Venne arrestato nel 1927, a 27 anni, assieme ad altri comunisti della zona, e fu condannato a due anni di carcere e tre di vigilanza, più l’interdizione dai pubblici uffici. In carcere fu ripetutamente percosso: lo colpivano al corpo e alla testa con sacchetti di sabbia, per non lasciare tracce dei pestaggi. Nel ’28 ci fu un condono, gli dissero che se si pentiva lo avrebbero liberato, ma lui si rifiutò di dichiararsi pentito, così scontò tutta la pena. Sopravvisse grazie al “Soccorso Rosso”, l’organizzazione che allora aiutava i perseguitati politici facendo collette per le famiglie dei detenuti. Quando fu di nuovo libero e tornò a casa, riprese clandestinamente la sua attività politica.

[…] I fascisti lo accusano di essersi «adoperato per riorganizzare il Partito comunista a Marradi, Fognano, San Cassiano e Strada Casale», dicono che «svolge riunioni politiche e fa propaganda politica nel suo negozio di barbiere» dove «si danno in lettura opuscoli sovversivi stampati alla macchia»16. Siccome ha «una discreta influenza nel partito e tra gli operai», viene ritenuto dai capetti del regime «pericoloso per l’ordine nazionale dello Stato». Viene rinchiuso prima nel carcere di Borgo San Lorenzo poi alle “Murate” di Firenze e viene scarcerato il 6 giugno del 1929. Sarà comunque sempre tenuto sotto sorveglianza negli anni successivi.

[…] Nell’ex monastero che ospita le anguste celle del carcere maschile delle “Murate”, che negli anni della guerra diventerà tristemente famoso come centro di raccolta e tortura dei perseguitati politici e dei partigiani catturati dai nazifascisti, Gildo ottiene il permesso di poter scrivere e giorno dopo giorno compila a mano un quaderno a righe di oltre 150 pagine. Il quaderno ha la copertina nera e il bordo rosso, come molti dei Quaderni di Gramsci. È timbrato “Direzione Carcere Giudiziario Firenze” in tutte le pagine, in alto a destra. Naturalmente, come tutte le corrispondenze dal carcere dei perseguitati, è sottoposto a censura, preventiva e post. Per cui in quelle pagine sono pochi e vaghi i riferimenti alla sua condizione di carcerato, e ancor meno gli spunti politici. C’è invece, in quelle pagine, l’amore grande di Gildo verso Ada, che desidera e vuole sposare perché l’ama «più di ogni altra cosa». Gildo comincia a riempire quelle pagine a partire dal 13 settembre 1927, tre mesi dopo l’arresto e 9 mesi prima del processo e della condanna. Il quaderno che la figlia Antonietta è riuscita a recuperare e che ha custodito gelosamente, contiene scritti fino al dicembre dello stesso anno. Non si sa se esistano altri quaderni per gli anni successivi.

La figlia Antonietta e la nipote Valbruna dicono che Gildo scriveva molto, quindi pensano che abbia continuato a farlo durante tutta la detenzione, ma se ci sono altri diari dal carcere non sono arrivati nelle loro mani. Nel quaderno conservato, prima Gildo comincia a scrivere solo nelle pagine di destra, poi ritorna indietro e verga anche quelle di sinistra. Non c’è un preciso ordine cronologico, la scrittura a volte non è lineare ma obliqua, e in qualche caso anche a pagina rovesciata. La quasi totalità degli scritti sono rivolti alla sua amata Ada, ma ci sono anche pagine indirizzate alla madre, oltre a traduzioni, esercizi di calligrafia e numeri. Probabilmente quelle pagine sono la minuta delle lettere che poi, previa autorizzazione e visto della censura, Gildo spediva a casa. Le lettere ad Ada sono odi d’amore, in prosa e anche in poesia, qualcuna scritta in stampatello, altre in dialetto romagnolo. A volte emerge la gelosia, la paura di perdere l’amata; spesso si fa prendere dallo sconforto per la lontananza e per il timore di non uscire vivo da quella cella. Una volta scrive alla madre di Ada, Caterina, per convincerla a dargli la figlia in sposa. La invita a fargli visita in carcere e le dice: «Non mi vedrete cattivo come ora mi credete, avrò tante scuse da farvi e mi troverete buono». Pensa che la mamma di Ada abbia il potere di farlo tornare a casa. Un’altra si rivolge al cappellano del carcere per chiedere cosa deve fare per sposare Ada, ma gli dicono che in carcere non si può e lui lo scrive, sconfortato, in stampatello: «GILDO E ADA SPOSI. Murate NON SI può».

Gildo spesso si lamenta di ricevere poche lettere, chiede ad Ada e ai famigliari di fargli visita, si dice dispiaciuto delle sofferenze che sta provocando alle persone che gli sono care, ha nostalgia del paesaggio della sua vallata, degli amici, del suo lavoro di falegname. A volte appare forte, sogna e scrive di quando tornerà finalmente a casa dalla sua famiglia e da Ada, altre volte sembra disperato e rassegnato, altre ancora scrive di sentirsi abbandonato e pensa di morire lì dentro.

«Sono innocente – urla in alcune pagine – cosa ho fatto di male? Nulla. E allora perché?». Un giorno sembra fiducioso nell’esito del processo: «La mia condanna non potrà essere grave perché non ho fatto nulla… la giustizia condannerà i colpevoli non gli innocenti come me, questa mia vita non sarà molto lunga».

Un altro giorno esprime il suo pessimismo con una citazione latina che evoca la rassegnazione al proprio destino, poi aggiunge disperato: «Sono solo un miserabile, sono un povero verme buttato innocentemente a morire in questa cella». In alcune pagine del quaderno ci sono riferimenti vaghi ma che fanno capire bene il suo stato d’animo e la sua condizione di perseguitato politico.

La cella dove Gildo è rinchiuso non è nemmeno illuminata e sono i famigliari a procurargli le candele per fare un po’ di luce. E lui scrive: «Nulla si sente, tutto tace in questa mia tomba. Nessun oggetto vedo, solo la candela che fa una piccola fiamma giallastra, come un cero su una fossa. Guardo al soffitto, è fatto a volte, ha proprio l’aria di una vera tomba». Si dispera per quella vita miserabile a cui è costretto, rinchiuso tra quelle quattro mura da innocente ma come se fosse il peggiore dei criminali: «Ho vissuto quattro mesi in agonia. Sono qui in questa cella senza nulla, senza conforto, nulla vedo altro che l’ombra mia: mi dico, sono morto, tutto è finito». Arriva così a invocare la morte per finire le pene, e immagina il dopo: «Diranno, quel povero ragazzo aveva poco cervello. Tu sola, cara Ada, sai i motivi che mi hanno buttato in una cella. E dirai: no, aveva solo il cuore triste». Poi aggiunge: «Piango sempre perché vorrei morire, ma non vorrei morire cosi. Se non muoio è perché ti amo».

In un’altra pagina accusa senza fare nomi le persone che evidentemente ritiene responsabili del suo arresto: «Qualche vagabondo, la denuncia di una persona che possiede solo dei pidocchi, non la voglia di lavorare e vuole solo bere alle spalle altrui, con vili accuse mi ha tolto da te».

Poi in due pagine drammatiche descrive il suo arresto e la successiva incarcerazione. «Un lunedì sera, il 6 giugno 1927, mentre me ne tornavo tutto contento a casa dopo aver passato tutta la serata con la mia amata, arrivando nelle vicinanze di San Cassiano sentii intimarmi il fermo e io subito ubbidii: potevo credere io in quel momento a ciò che stava avvenendo su di me? Non sapevo nulla e nemmeno potevo immaginarlo. Fui subito messo ai ferri, non sapevo spiegarmi perché, che cosa avessi fatto. Ma più tardi, giunto alla stazione dei carabinieri, dovetti subire interrogatori e vili accuse. Non sapevo più cosa succedeva, piansi sempre, non sapevo rassegnarmi, passai 11 giorni in quella caserma che mai potrò dimenticare… Fummo dunque mandati qua, nel viaggio tutti ci guardavano, specialmente quando scendemmo alla stazione di Firenze. Non eravamo soltanto con le manette ai polsi, ma anche con le catene, legati quattro a quattro, camminavamo con il rumore dei ferri e i carabinieri dietro. Chissà cosa avranno pensato di noi? Chi poteva credere che fossimo buoni cittadini? La vergogna che provai quel giorno non la dimenticherò mai».

In alcune altre pagine descrive invece lo squallore della sua cella: «Non so dove la mia finestra guarda, non scorgo né la terra né il cielo, non mi giunge né il sole né il chiaro della luna. A volte mi getto come un gatto, mi attacco con le mani ai ferri [dell’inferriata, ndr], ma null’altro posso scorgere della vita che la grande cinta [muraria, ndr] che divide la mia libertà da questa terra…. Vedendo così lontana la vita del mio cuore [Ada, ndr], pensando a quei dolci ricordi che, mia piccola, passavo al tuo fianco, sento mancarmi la forza per reggermi, mi levo da quei ferri che puzzano di muffa, mi lascio cadere nel pagliericcio steso per terra mentre mi piange l’anima, mi piange il cuore…».

Oltre a scrivere il quaderno e le lettere, Gildo legge anche tutto quello che riesce ad avere dalla biblioteca del carcere, trascrive poesie del Carducci e altri testi letterari. Così riesce a mantenersi vivo fino alla scarcerazione. Quando potrà finalmente tornare a casa, tuttavia, non sarà ancora libero, perché le camicie nere continueranno a sorvegliarlo e a tenerlo sotto pressione per anni. «In quegli anni io ero molto piccola – racconta la figlia Antonietta, classe 1933 – ma ricordo che spesso venivano fatte delle perquisizioni in casa nostra e in quelle occasioni la mia famiglia mi nascondeva per paura che quegli uomini mi prendessero e mi usassero come arma per ricattare il babbo».

Appena si allenta un po’ la sorveglianza, Gildo ricomincia la sua azione antifascista e di attivista comunista. Poi, come tanti altri della sua generazione, va in guerra e dopo l’8 settembre del 1943 diserta e si dà alla macchia. «Quando tornò a casa – aggiunge Delmo Malavolti– riprese clandestinamente la sua attività politica. Durante la Resistenza collaborò intensamente con Renato Emaldi, il “professore” di Fusignano, mandato dal partito di Ravenna a organizzare la rete clandestina in questa zona e a costruire e tenere i primi collegamenti tra le brigate partigiane e il Comitato di Liberazione Nazionale (CLN). Emaldi era una persona distinta, coltissima, sempre vestita bene, spesso con la cravatta. In particolare, convinceva i giovani ad andare nei partigiani. Si era rifugiato alla Chiesa di Valpiana, nascosto dal parroco antifascista, per sfuggire ai fascisti che lo cercavano. Poi cadde in una trappola e fu ucciso dai fascisti al Casone di Tura nella primavera del ’44».

Appena si comincia a pensare alla lotta armata contro l’occupazione tedesca, Gildo è subito protagonista. In collaborazione con Emaldi, l’ideologo del PCI clandestino nella zona alta di Brisighella, e con Amedeo Liverani, Ravasol, svolge opera di convincimento a Fognano e nella zona di Casale e San Cassiano, tra i contadini e in particolare verso i giovani, e organizza i primi gruppi armati nei monti dell’alta Val Lamone.

Gildo, Renato e Ravasol si incontrano spesso al Casone di Tura, dove vive e lavora la numerosa famiglia Visani e dove sono sfollate anche Ada e la figlia Antonietta. Una casa usata spesso come riparo per i partigiani. Una famiglia contadina, che come altre in quella zona, aiuterà la Resistenza ad affermarsi. Un sostegno molto rischioso che, in più di una occasione, metterà a repentaglio la sicurezza delle famiglie amiche dei partigiani e in particolare la sorte dei componenti maschi. «Mia mamma era preoccupata, mi diceva che il babbo aveva l’ossessione di incontrare Emaldi, e che così facendo correva sempre tanti rischi», ricorda Antonietta. E infatti subito dopo l’assassinio del “professore”, Gildo viene arrestato e successivamente deportato in Germania: resterà richiuso in un campo di concentramento fino al 3 di agosto del 1945.

«Fu liberato dall’Armata Rossa e tornò a casa, a Strada Casale, dove poco dopo aprì la sezione del PCI e divenne responsabile per tutta la parte alta del Comune, prima di diventare sindaco», ricorda Delmo Malavolti.

[…] Nel 1946 i social-comunisti vincono le elezioni, si insedia la giunta del sindaco socialista Carlo Cavina e Gildo viene eletto consigliere comunale. L’anno successivo il fronte fino ad allora unitario del CLN si rompe: la Democrazia Cristiana da un lato, socialisti e comunisti dall’altro; poi anche il PSI si dividerà e Saragat fonderà il Partito socialdemocratico. Le fibrillazioni politiche giungono anche a Brisighella, Cavina si dimette ma i social-comunisti riescono ugualmente a eleggere sindaco Ermenegildo Montevecchi. È il primo sindaco comunista eletto, dopo la parentesi di Sesto Liverani (Palì) nominato dal CLN. Sarà sindaco fino al 1951.

«Mio padre non c’era mai – ricorda Antonietta – quella sua incurabile passione politica e l’impegno di primo cittadino lo tenevano sempre lontano da casa, ma non perse mai la sua dolcezza: quando la sera tardi finalmente rientrava, a costo di svegliarmi mi dava sempre il bacio della buonanotte e metteva un cioccolatino sul mio comodino. Per me aveva mille attenzioni. Quando era sindaco e io ero una ragazzina di 15-16 anni, spesso mi portava con lui ad eventi sociali del Comune, alle feste, a volte caricandomi sul cannone della bicicletta. Mi portava anche a ballare e siccome mia mamma non era tanto d’accordo mi diceva: tre balli e basta, poi si torna a casa».

«Mia nonna Ada – precisa la nipote Valbruna – era una persona meravigliosa ma molto rigida, schiva e riservata. Non era mai stata contenta che suo marito facesse quella vita. Prima e durante la guerra per tutti i rischi che correva e che faceva correre anche alla sua famiglia, nel dopoguerra per l’impegno politico e amministrativo che lo teneva sempre lontano da casa. Ma ha sempre accettato e rispettato le sue scelte. Però non partecipava quasi mai alla vita pubblica del nonno. Così era la mamma che andava con lui a fare la “first lady”».

«Spesso Gildo andava in Comune con la corriera – continua Antonietta – e se capitava che quando arrivava non c’era ancora, la corriera lo aspettava: lui arrivava trafelato, finendo di vestirsi mentre camminava; la sera faceva sempre tardi e la mattina presto era dura ad alzarsi in tempo. Altre volte invece lo venivano a prendere i compagni di partito con la macchina e alla sera lo riportavano a casa. Ogni tanto usava anche la macchina pubblica della concessionaria Magnani».

Antonietta è ancora oggi una splendida ottantacinquenne, ma da giovane era una bellissima ragazza. «Forse – sorride Valbruna – fu proprio quella frequentazione con Giuseppe Mino Magnani, o forse il concorso di bellezza in cui la mamma venne eletta per ben tre volte “Reginetta di Fognano”, ad accendere la scintilla tra loro due». Una scintilla che avrebbe spinto Magnani a fare la corte alla figlia di Gildo e vari anni dopo a sposarla. Dalla loro unione è poi nata Valbruna. Gildo era un sindaco molto popolare: uno del popolo, amato dal popolo e stimato anche dagli avversari politici. «Ricordo – dice Antonietta – che il sindaco democristiano Augusto Piccinini che venne dopo di lui, ogni volta che mi vedeva non perdeva occasione per dirmi quanto era buono e bravo mio padre».

[…] Ermenegildo Montevecchi muore nel 1955, ancora giovane, per un tumore al cervello. La documentazione medica ipotizza che tra le concause della malattia e della prematura morte ci siano state le lesioni alla testa provocate dai colpi e dalle percosse subite nel periodo della detenzione e della deportazione. Ai funerali di Gildo partecipa una folla enorme, in un clima di grande commozione.

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