CRITICA FILM

Com’è triste Venezia: lo sguardo di un “marziano” e cinque film da lasciar perdere

L’esperimento “Venezia a caso”, raccattando biglietti e film come si fa dal tabaccaio con i gratta e vinci, direi che è stato un fallimento completo. Non ho fatto niente di male. Volevo vedere il festival dal punto di vista di un marziano. Con queste righe spero di farvi risparmiare 50 euro che sarebbero spesi malissimo.

Vi sconsiglio caldamente Block 99 di S.Craig Zahler con protagonista Vince Vaughn (1 metro e 98 di muscoli), annunciato come «il film che sconvolgerà Venezia per la sua violenza». Sono entrato in sala di notte, stanco per il viaggio, temendo che la visione mi potesse procurare un mezzo coccolone. Le premesse andavano in quelle direzione. Al primo minuto Vaughn, per l’occasione vestito di nero, rasato a zero, con una enorme croce blu tatuata dietro la testa, viene licenziato in tronco dal datore di lavoro che ha pensato bene di circondarsi di amici prima di liquidarlo, sai mai; al 3° minuto Vaughn tornato a casa prima del tempo scopre la moglie fedifraga; al 4° le demolisce l’auto a forza di pugni; al 6° la perdona, al 12° affianca un amico in un giro internazionale di droga, voglio cambiare vita e darti il lusso che meriti dice alla compagna terrorizzata. Nelle successive due ore (il film dura 232 minuti) solo un casino di botte e di spari come ai tempi di Bud Spencer ma con i crash di braccia e gambe spezzati come fuscelli al posto dei celebri pugni a martello, davanti a metà sala che sghignazzava (l’altra metà era già andata a letto). Tarantino ha fatto scuola, ma anche danni incommensurabili.

Ma vi sconsiglio con ancor più calore La villa del francese Robert Guediguian, addirittura in concorso. Qui la partenza è promettente ma svolgimento e conclusione sono improbabili quanto ridicoli. Tre fratelli si ritrovano dopo decenni al capezzale del padre morente per l’eredità del ristorante sul mare un tempo fulcro di tutta la comunità del posto, oggi emigrata altrove. Ah quei tempi, come si stava bene e come si lavorava bene. Adesso invece i fratelli sono incazzati neri e non si capiscono più. Lei, che pare la Litizzetto, ed è attrice teatrale, rinfaccia ai familiari la morte della figlia, cui sventatamente l’affidò tanti anni prima, e la conseguente separazione dal marito; ma anche i due fratelli, uno prof universitario e l’altro restato al ristorante col padre, si lagnano e si accusano reciprocamente. Come siamo cambiati, non ci sopportiamo più! E chi è che continua a rubare la marmellata dal tavolino della colazione? Ma guarda te, scopre il più rincoglionito dei fratelli usando il canocchiale, è una piccola migrante quella che si frega le confetture, per nutrire i due fratellini nascosti in una grotta. Dove sono i genitori? Annegati col barcone. E allora ecco che la piccola comunità adotta i tre bimbi e da quel momento chi litiga più? La donna ha ritrovato la figlia perduta e, in uno scatto d’euforia, si fidanza con lo scemo del villaggio; il prof riscopre il senso della vita, l’altro può fare colazione in pace. Dulcis in fundo, il padre si risveglia dal coma. Avete dei problemi? L’immigrazione vi salverà.

Così provato da tali e tante scemenze in soli due film, sono finito dritto nella rassegna “Orizzonti” per West of sunshine dell’australiano Jason Raftopoulos, che ha una qualità: dura solo 78 minuti, raccontando la giornata di un uomo divorziato e pieno di debiti, che si gioca tutto ai cavalli e non sa neppure organizzare mandrakate per porvi rimedio, e che per giunta nelle ore in cui gli spetta il figlio da gestire deve pagare uno strozzino manesco (ma non ha i soldi, ovviamente). Un dejà vu, certo, ma volendo poteva uscirne un prodotto decoroso. La sfiga però vuole che il protagonista, Damian Hill, sia un sosia dell’ex ct dell’Italia del pallone Antonio Conte, pure col vizio del gioco, ma di un altro gioco. Chiaro che vedere Conte sbattersi tra droga e prostitute per rimediare i soldi, e farsi sbattere di pugni, fa un effetto grottesco. Sublimato dalla scena in cui il papà, per cementare il rapporto col figlio, si fa da lui rasare malamente la chioma. Allora non era un parrucchino!

Ormai allo sbando sono finito alla proiezione di Marvin della francese Anne Fontaine, che potrebbe titolarsi “Dolori, vita e opere di un gay”. Io non sono gay, non ho nulla contro i gay ci mancherebbe, ma due ore di peripezie di un ragazzino incompreso e anzi abusato dagli studenti più grandi fin dai tempi della scuola, e poi ancora più grandicello impegnato in amplessi documentati sotto la doccia della palestra, e poi ancora ecc.ecc. finché non trova nella recitazione, con l’aiuto di Isabelle Huppert nel ruolo di se stessa, il senso della vita e infine il successo. Beh forse è egoismo, ma la storia mi interessa poco, se non nei dettagli, o nelle interpretazioni della mamma ex prostituta scorreggiona e del papà troglodita che sembra Obelix col giubbotto di jeans smanicato. Almeno loro sono due caratteristi divertenti.

Non avevo ancora visto il peggio, però, e che si è manifestato con Una famiglia di Sebastiano Riso, protagonisti una pessima Micaela Ramazzotti e l’attore/chansonnier francese Bruel, coppia decisamente sui generis: stanno assieme per fare figli e poi venderli, ma non si sopportano più, si odiano in un film che definire buio, greve, squallido e inutile equivale a un complimento. Basta, non sono una fattrice sembra dire lei a un certo punto e scappa dal medico per farsi mettere la spirale da una persona di fiducia: ma il medico neanche a farlo apposta è il don Pietro Savastano superboss di Gomorra, sai che amico. Si finisce con la ricerca del neonato tra spazzatura e cassonetti. Io lì ci avrei messo la pellicola di Riso, che beffa di cognome per uno che fa film così.

Sappiate che per riprendermi ho chiamato giù dalla sala stampa Alberto Crespi (“L’Unità”, “Hollywood Party”) per parlare di calcio poi ho acceso la tv e su Raimovie in poche ore ho visto La regola del silenzio di Robert Redford e The missing di Ron Howard, riconciliandomi con il cinema.