DAILY LA PAROLA

Quiddità

«Le cose mutevoli e transitorie – imperfette – si mescolano con la perfetta e immutabile quiddità» (Lao Tse)

Ecco una parola che piace ai letterati: la quiddità. Sarà perché designa ciò che è proprio della cosa, la sua essenza, la sua sostanza: il succo della questione, insomma. Oppure perché ha un bel suono che raddoppia e frena all’ultimo secondo, prima di precipitare, come l’onestà, la beltà, la verità: si pone insomma fra le qualità così, raddoppiando e poi precipitando una risposta a una domanda.
La sua origine infatti è dal pronome interrogativo latino quid?, che cosa?, è la nominalizzazione di un pronome, ovvero un pronome che si fa nome. Ci dice Wikipedia: «rispondendo alla domanda quidditas, che cos’è questa cosa che la fa essere ciò che è e non un’altra?, si descrive cos’è l’essenza o la natura primaria di una cosa considerata per sé (καϑ᾿ αὑτό), cioè come risultato del procedimento di astrazione messo in atto dall’intelletto sulle qualità sensibili quando ricerca la “materia prima” della cosa indipendentemente dalla forma». Che treno di parole! Eccoci subito catapultati nel magico mondo della filosofia, in particolare di quella medievale, ovvero la Scolastica, che voleva armonizzare passato e presente, tradizione pagana e cristianesimo. Diventa quindi evidente che in origine il termine è tecnico, proprio della filosofia medievale. E siccome se dici Scolastica dici Dante, ecco che il Sommo Poeta viene citato praticamente in tutte le definizioni che ne vengono date: «Fede è sustanza di cose sperate, Ed argomento delle non parventi; E questa pare a me sua quiditate» (Paradiso, XXIV 64-66; in risposta alla domanda di s. Pietro: «Fede che è?»).

Ma attenzione, questa quiddità non appartiene solo al mondo occidentale, anche il Buddismo ha un termine corrispondente, stavolta non latino ma sanscrito: Tathātā (तथाता), ovvero «la vera natura della cose, l’autentica natura della realtà». Questa parola indica una dottrina fondamentale del Buddhismo Mahāyāna: Tathātā corrisponde alla realtà delle cose come è in sé stessa, prima della loro organizzazione strutturata dal nostro pensiero. Nel secondo capitolo del Sutra del Loto il Buddha Śākyamuni, alla richiesta del suo discepolo Śāriputra di sapere quale sia la dottrina più profonda, risponde con la dottrina della dieci tathātā (caratteristiche, natura, essenza, forza, azione, causa, condizione, retribuzione, frutto e uguaglianza di tutte queste quiddità tra loro). Questa compresenza la contemplava anche la Scolastica, perché nella materia in quanto costituita da elementi molteplici si potevano distinguere varie quidditates.

Tutt’altro destino ha trovato, invece, il pronome quid nudo e crudo, che in italiano è diventato un sostantivo invariato con il quale ci si riferisce a una qualità indeterminata, che non si può definire o quantificare: chi possiede un quid possiede un certo che; chi ne manca, manca di quel certo non so che.

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