Diciamo sì un sacco di volte al giorno. In qualche caso senza pensarci, per pentirci qualche tempo dopo. Di certo, questa piccola parola, composta soltanto da due lettere, condiziona enormemente la nostra vita, sia quando la pronunciamo ufficialmente (per esempio, durante un matrimonio), sia quando è ufficiosa oppure ci sfugge, per pigrizia o distrazione.
Il sì – tanto abituale da passare quasi inosservato – è una parola antica che, per molti versi, qualifica e segna fin dalle origini la lingua che parliamo, l’italiano. Lasciamo perdere l’uso che se ne faceva un tempo per dire così (basti citare Dante Alighieri – «sì cominciò lo mio duca a parlarmi» – nel XVI canto dell’Inferno) e concentriamoci su significato più comune ed evidente. I linguisti dicono che il sì è una parola olofrastica equivalente a una frase affermativa, e che, come tale, si incontra soprattutto in risposte (è il contrario di no, che ha usi analoghi). Per olofrastica si intende che quella parola viene usata da sola per indicare il significato di un’intera frase. Nel caso del sì e del no, è evidente che sono utilizzati come replica a una domanda e che il resto della risposta resta sottinteso (quindi chi non sente il quesito non può sapere che cosa è sottinteso, con grande stizza dei pettegoli).
Perché in Italia sì dice sì come in spagnolo e quasi come in portoghese (sim, pronunciato sin)? Per capirlo, torniamo a Dante, premettendo che la lingua italiana, come altri idiomi europei, è nata da una “volgarizzazione” del latino: è il frutto della trasformazione e della contaminazione (da parte di dialetti e di lingue straniere) del latino parlato quotidianamente dalla gente comune nel corso del Medioevo. Cosicché la lingua italiana è stata chiamata la “lingua del sì” proprio grazie a una tripartizione delle lingue romanze (o neolatine che dir si voglia) effettuata da Alighieri nel De vulgari eloquentia (L’eloquenza della lingua volgare), un trattato scritto in latino tra 1303 e 1305. L’opera è stata ed è molto celebre, perché sdoganò l’utilizzo del volgare anche da parte degli intellettuali medievali.
Dante distingue tre principali filoni linguistici, in base alla loro particella affermativa. Ecco, dunque, la “lingua d’oïl” nella Francia del Nord, madre dell’odierno francese; la “lingua d’oc” nella Francia del Sud, da cui deriva l’occitano e usata dai trovatori, cioè i poeti-musicisti provenzali attivi dalla fine dell’XI secolo alla fine del XIII; e la “lingua del sì”, ossia l’italiano. Lo stesso Dante nella Divina Commedia (Inferno, C. XXXIII) definisce l’Italia «il bel paese là dove ’l sì suona».
Qual è il motivo per cui noi italiani oggi diciamo sì invece di oui, alla francese? Semplice: il sì nasce come abbreviazione della locuzione latina sic est (è così), da cui col tempo sono scomparsi il verbo e pure la lettera C. Oc deriva invece dalla contrazione del latino hoc est (questo è); oil da illud est (quello è). Per restare in Europa occidentale, l’equivalente inglese (yes) ha un’etimologia totalmente diversa: nato dall’antico inglese gēse, significa letteralmente “così sia!”, da “gē + sie”, congiuntivo imperativo di essere: gē deriva dalla lingua dalla tribù germanica degli Angli (migrati nel V secolo verso l’attuale Inghilterra con i Sassoni e altre tribù) e viene dal proto-germanico ja, con il significato di sì o veramente (questo spiega anche lo ja tedesco), a sua volta derivato dal proto-Indoeuropeo yē (già) .
Per tornare in Italia, il sì sta perdendo colpi sotto l’attacco dell’ok e dell’okay (pronunciato occhei) di origine (recente, anche se controversa) americana, ormai entrato nell’uso comune degli italiani. Pazienza. Resta il fatto che – come ha affermato il Mahatma Gandhi – «un no detto con la più grande convinzione è migliore e ha più valore di un sì (o di un okay... ndr) pronunciato solamente per compiacere, o, cosa peggiore, per evitare i problemi».