Mancanza completa di suoni, rumori, voci. Cessazione o astensione dal parlare. Questo ci dicono i dizionari alla voce silenzio. La tentazione è di relegare il sostantivo nel dimenticatoio, alla stregua delle parole cadute in disuso: «Corbezzoli, che silenzio!», esclama la signora di tempi fuggiti, sorseggiando un bicchierino di anisetta.
L’assenza di silenzio, ma ancor più la perdita del silenzio, mi viene dall’istintivo fastidio causatomi dalla musica diffusa in un ristorante. Nulla di eclatante, nessun tono esageratamente alto. Eppure quelle note, così dolci se udite in altro contesto e per precisa volontà, mi hanno lasciato un sapore di falso e hanno trasformato un’armonia in un suono disarticolato, senz’anima.
Sarà per la mia età, ma avverto una crescente intolleranza per i suoni che oggi ritroviamo ovunque, che ci vengono imposti nelle sale d’attesa che capita di frequentare, nei supermercati dove andiamo a fare la spesa, nei locali dove consumiamo le pause pranzo.
Per non parlare dei negozi travolti da un’orgia di rumori che paiono farsi più densi, complice il grande e inutile calore che regna nei templi del consumo. Osservo con il naso all’insù, data la statura e non senza un moto di istintiva solidarietà, quegli impeccabili signori in completo nero che fanno da guardiani alle porte dei consumi, ora rivolti per metà al grande freddo di questo gennaio e con l’altra condannati a roventi ondate d’aria.
Siamo obbligati a essere blanditi in ogni istante non già dalla musica, ma da suoni disarticolati, accompagnati da quegli sghembi flash e dai mille pupi che appaiono sui video e che ci tengono informati minuto per minuto.
L’importante è che, sempre e ovunque, siamo tutti in diretta.
Così abbiamo perso l’abitudine a stare in silenzio. Nel raro caso ciò accada, provvede a farci tornare alla realtà la nostra condanna quotidiana che qualcuno, invero raro, si ostina a chiamare telefono, nonostante la funzione della conversazione sia del tutto residuale e occupi l’un per cento delle potenzialità dell’aggeggio.
Conversazione che diventa spettacolo per chi ci ascolta quando si trasforma in fatto pubblico, cancellando il naturale pudore che dovrebbe ammantare i nostri innocenti affari.
Suoni e immagini, prima ancora delle parole, sono diventate il filo invisibile sul quale si sviluppano le relazioni, anche quelle interpersonali, che ci piaccia o no. Dagli schermi pubblici delle città, si pongono al centro del nostro universo, si gonfiano sino all’inverosimile, per poi scomparire in un istante, come non fossero mai esistite, pronte ad essere subito sostituite da altre.
Vorrei dire che non esistono, ma mentirei.
Suoni e immagini, immagini e suoni. La dimensione virtuale favorisce vissuti di onnipotenza e crea rischi evidenti di confusione identitaria, alimentata dalle straordinarie opportunità offerte dalla nostra epoca.
È la metamorfosi che ha investito la civiltà globalizzata.
Lo scrivo nel ritrovato e breve silenzio di un’ora tarda mentre voglio sperare in un imprevedibile nuovo Umanesimo o in un altro Rinascimento.