DAILY LA PAROLA

Smara

Smara: una parola che si trasforma nei secoli, dall'amore alla malinconia, all'odio dichiarato

Se ne intendono i politici, di smara, soprattutto quando montano alleanze improbabili, quando litigano. In origine, tuttavia, il significato della parola – in uso in tutto il bacino del Mediterraneo – non era tanto quello di “litigio”, quanto di “malinconia”, “pensieri tristi”. Un po’ come paturnia, che è rimasta nel lessico nazionale, ma con una sfumatura tra l’ironico e il riduttivo, così come l’aggettivo paturnioso. Smara no, è un’altra faccenda. È la storia migrante di un senso che si trasforma radicalmente, e si fa paradigma.

Il termine è sanscrito e voleva dire, in origine, tanto “amore” che “memoria”. Forse perché, quando si ama, ci si ricorda dell’oggetto del proprio amore, oppure – come sostiene Giorgio Agamben nel suo Autoritratto nello studio – che l’amore è al di là del ricordo «immemorabilmente, incessantemente presente». Esiste anche una città marocchina che si chiama così, a sud-est di Laayoune, nel Sahara Occidentale: le è intitolato uno dei campi profughi Saharawi di Tindouf, dato che a Smara – materialmente – non torna più un Saharawi da oltre venticinque anni. È dal 1992, infatti che il popolo del deserto aspetta un referendum per l’autodeterminazione. Non si tratta di un’oziosa divagazione: ben si accorda con il significato veneto-friulano della smara; una sorta di malinconia profonda, una nostalgia. Però gli anziani, nella tradizione soprattutto orale, più che al sanscrito di Agamben, la collegano al concetto di “incubo”, rifacendosi al teutonico “mahr” e al francese “cauchemar”. Tutto merito delle truppe  dei lanzichenecchi?

Resta da chiedersi come smara sia stato traghettato da un’aura nostalgica al cattivo pensiero, e dall’incubo ad un significato di  “risentimento puro”. Amore ed odio, verrebbe da commentare. Già perché star in smara, di questi tempi, nell’idioma veneziano, significa “guardarsi in cagnesco”, “aver litigato”, “farsi la guerra”. Un celebre avvocato veneziano, da tempo in quiescenza, usava spesso – non si sa se per vezzo neologistico o per oggettiva esistenza del termine – l’aggettivo smarà: peggio che alterato, furente. L’epiteto non è goldoniano e la Bibbia del dialetto veneto, il Dizionario del Boerio (d’antan, ma storicamente ineccepibile) non ne fa motto, limitandosi a definire la suddetta smara come «passaggio di pensieri noiosi o malinconici». Però, dalle parti del sestiere di Castello, dove si dice che la peste secentesca si sia fermata, senza più armi, di fronte ad un’immagine della Madonna, la smara pretende amuleti e strani rituali per essere superata, come una maledizione. Una pace armata, a suon di litanìe.

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