RACCONTI ZIBALDONE

Un’eredità… di famiglia

La morte, per noi bancari, è un avvenimento di routine, così come per i medici, i poliziotti o gli impresari di pompe funebri. Capisco che la questione messa così sembri brutta, ma intendo dire che rientra tra gli eventi nei quali ci possiamo imbattere e che richiedono un certo tipo di comportamento, di solito codificato dall’azienda, il cui scopo principale è fare sì che la stessa azienda non abbia grane da parte di eredi legittimi e presunti. Alcune banche destinano un impiegato a leggere quotidianamente gli annunci funebri per controllare l’eventuale presenza di qualche correntista dell’istituto. Appena si viene informati del trapasso di un cliente, immediatamente la mano corre alla Circolare interna, ammesso che non la si sappia a memoria, e al Codice civile,Libro secondo “Delle successioni”.Si fa mente locale, sempre che si conosca bene il cliente, ai familiari, al coniuge, ad eventuali figli prediletti e all’immancabile badante, sempre presente se la fine è arrivata per vecchiaia. Si riepilogano i suoi conti correnti e i depositi titoli da bloccare, ma essenzialmente, da quel momento in poi, diventerà il “de cuius”. Non più il dottor Rossi, il “primario cliente”, il “grosso investitore” come lo abbiamo finora chiamato nelle nostre relazioni alla direzione, per fargli avere quel tasso un po’ più alto o quello sconto sulle commissioni per evitare che passasse alla concorrenza: semplicemente il “de cuius”.

Quella mattina mi telefonò il cassiere allo sportello per riferirmi che una signora sudamericana addetta alle pulizie, gli aveva comunicato di aver trovato due ore prima il signor Nuccorini serenamente morto nel suo letto. La signora aveva avuto nel passato istruzioni che nel caso di un avvenimento simile, doveva avvisare per prima la nostra banca.

La notizia mi sconvolse non poco; riuscii a mormorare un fievole «grazie» al cassiere e immediatamente sentii il mio cuore aumentare i battiti a dismisura e la lingua annaspare in una bocca diventata improvvisamente secca. Sentii il bisogno di uscire dalla mia stanza silenziosa, per ingoiare un po’ di aria fresca, per vedere persone, per calmarmi e pensare camminando.

Conobbi Marcello Nuccorini circa vent’anni fa. Aveva appena venduto il lanificio di famiglia a Prato, di cui era l’unico proprietario, ricavandone una piccola fortuna. Era un sessantenne alto e simpatico, senz’altro un grande spirito commerciale, che riusciva a metterti a tuo agio con poche parole e ad ispirarti una fiducia che non sarebbe cessata nemmeno se tu l’avessi scoperto con la coda dell’occhio mentre cercava di accoltellarti alle spalle. Aveva l’eleganza disinvolta e sfrontata degli industriali pratesi: colorati pullover di un cachemire a tre capi meraviglioso, pantaloni di velluto Visconti di Modrone, mocassini inglesi e splendidi giacconi impermeabili. Sempre leggermente abbronzato, per la pratica di sport all’aria aperta, equitazione, tennis, sci e per i due o tre viaggi all’anno in paesi esotici, ma mai banali; India, Cile, Sudafrica. Era entrato in banca e si era diretto immediatamente da me e con un gran sorriso mi aveva detto di volere aprire un conto perché passando lì davanti aveva trovato i locali della nostra agenzia simpatici e comodi. Ricordo che, come prevede la procedura gli avevo chiesto l’occupazione.

«Non faccio più niente, vivo di rendita» disse.

«È sicuro? Non vuole mettere imprenditore?»

«Lo ero. Ora non più».

«Va bene, metterò “redditiero”», risposi. E redditiero sempre rimase per tutto il periodo della nostra conoscenza, e quali redditi! Il suo patrimonio, una parte consistente del quale curavo io, gli fruttava interessi mensili pari grosso modo al mio stipendio annuale.

Diventammo amici, ma non amici-amici. Non mi sarei mai sognato di vederlo per cena oppure di invitarlo un weekend a sciare. Eravamo amici di lavoro; ci vedevamo spesso a pranzo, oppure per una caffè a metà mattinata. A volte piombava nel mio ufficio e mi raccontava del suo ultimo viaggio dal quale non mancava mai di portarmi un piccolo regalo, sempre molto elegante e azzeccato. Marcello comunque era un uomo solo. Aveva molti amici, frequentava belle donne e si diceva che in gioventù avesse avuto una lunga relazione con una bellissima attrice francese, oggi settantenne, ma non ebbi mai la confidenza o forse il coraggio di chiederglielo.

Vedermelo entrare in ufficio mi dava allegria. Non aveva mai contestato una scelta di investimento, una commissione più elevata, una performance negativa; con la fortuna degli eroi positivi guadagnava sempre e anche per questo, forse, era sempre di buon umore. Almeno una volta alla settimana andavamo a pranzo insieme, a volte in trattorie tipiche, altre volte spuntini veloci e dopo, nelle giornate di sole, andavamo a fare due passi in centro, guardando le vetrine, in quella mezz’ora di ozio chiamata in gergo “il passo del bancario” durante il quale una frotta di persone di mezza età invade marciapiedi, librerie e negozi per poi, alle 14.45, finire risucchiata dalle porte elettriche di vetro blindato di austeri edifici.

Fu proprio durante uno di questi pasti in una trattoria casalinga nei pressi della mia banca, che notammo al tavolo accanto al nostro una bellissima ragazza che mangiava da sola, sfogliando un grosso pacco di fogli dattiloscritti. La mia timidezza è proverbiale, mentre Marcello, spigliato come sempre, brigò signorilmente finché convinse la ragazza a sedersi con noi. Nadia, così si chiamava, si era laureata in scienze politiche l’anno precedente e stava facendo uno stage in una società di marketing, ma il suo obiettivo era vincere un concorso alla Comunità europea. Dalla sua parte aveva la buona conoscenza di due lingue oltre all’italiano e al francese, lingua di sua madre, che aveva studiato arte a Firenze e poi era tornata a Parigi dove tuttora viveva.

«Magari anche suo padre le ha lasciato una lingua, forse inglese o tedesco?» chiese Marcello .

«Non conosco mio padre, signore», rispose Nadia con freddezza.

L’improvviso silenzio di Marcello mi costrinse a sostenere la conversazione anche perché pochi attimi dopo il mio amico si alzò per congedarsi improvvisamente a causa di un appuntamento dimenticato nella parte opposta della città.

Mi sono sempre domandato se quella uscita di scena fosse stata studiata, per favorire quello che successe dopo. Infatti accompagnai Nadia all’ufficio, le chiesi il numero di telefono, la richiamai il giorno dopo per invitarla al cinema, poi lei mi invitò a cena a casa sua; oggi, dopo due anni di convivenza, siamo una coppia stabile e felice e forse il prossimo anno ci sposeremo.

Gli unici parenti che Marcello aveva erano due sorelle più giovani, Deanna e Ivana, con le quali non aveva il minimo rapporto. Erano state ai tempi escluse dall’eredità dello stabilimento di famiglia, che era finito per intero a Marcello. Il padre intese sistemarle lasciando loro un bell’appartamento alla Pietà per ciascuna, del valore di diverse centinaia di milioni di lire; ma l’esclusione dalla proprietà della fabbrica aveva fatto montare in esse l’odio nei confronti del fratello maggiore. Un matrimonio disgraziato di Deanna con uno scialacquatore aveva fatto evaporare rapidamente sia gli appartamenti sia i depositi bancari delle due, le quali campavano con un piccolo vitalizio disposto per buon cuore dal fratello che, tuttavia, detestavano con tutte le proprie forze. Quanto Marcello era signore, tanto loro erano meschine e tutte le volte che venivano a prelevare dai loro conticini, aperti nella nostra banca per volontà di Marcello, non perdevano occasione per sparlare con me del fratello.

In realtà alla morte del padre Marcello ereditò una società che ben presto si scoprì in stato prefallimentare e solo la bravura del mio amico, sia pure unita ad una discreta dose di fortuna, aveva potuto risollevarla fino a venderla dopo anni, ad una cifra considerevole. Le due arpie però avevano da anni incaricato un misero avvocato per cercare di estorcere a Marcello tutto quello che era possibile.

«Adesso saranno contente» pensai: uniche eredi, salvo che lui non abbia fatto testamento. Ma nei primi giorni dopo il fatto niente era venuto fuori.

Iniziò a telefonarmi l’avvocaticchio delle sorelle Nuccorini per premermi affinché iniziassi a trasferire i depositi di Marcello sulle posizioni delle sorelle, cosa peraltro impossibile in mancanza della chiusura della successione da parte dell’Agenzia delle Entrate. Almeno due volte alla settimana o Deanna o Ivana venivano a blandirmi raccomandandomi di dare seguito al trasferimento dei valori. Alla fine arrivò il documento dell’Agenzia delle Entrate e a malincuore mi preparai a dare le istruzioni alla nostra direzione.

Ma proprio quella mattina accadde l’impensabile: arrivò un ufficiale giudiziario a notificarmi un ingiunzione di diffida ad eseguire le istruzioni dei presunti eredi del Nuccorini Marcello in quanto si era fatta avanti una possibile erede universale che chiedeva con motivazione il test genetico. In tutta sincerità non chiedevo niente di meglio; mi sentii sollevato dal non dover girare quella piccola fortuna alle due arpie. Misi tutti i documenti nella cartellina e telefonai con gusto sadico all’avvocato delle due, spiegandogli il motivo per cui non potevo dare seguito alle sue istruzioni in merito alla successione. Dopo una manciata di secondi di silenzio l’avvocato inizio ad alzare la voce intimandomi di procedere, minacciandomi di conseguenze devastanti anche personali.

«Ma caro avvocato – risposi con la massima calma – lei mi capisce: ho avuto un’ingiunzione del Tribunale, non posso fare niente salvo che aspettare gli eventi».

Dopo avere messo giù il telefono mi allungai sulla sedia e pensai a Marcello: che playboy! quale figlio poteva essere venuto fuori a distanza di anni e concepito dove e con chi? Mi venne in mente che forse doveva essere scritto sull’ingiunzione. La tirai fuori dalla cartellina, scorsi rapidamente tutta la pagina e in fondo sotto la dizione “parte attrice” c’era scritto: Nadia Milhaud Cremieux: la mia compagna .

Che dire? Sono passati due anni, il test del DNA ha rivelato che Nadia era figlia di Marcello, senza ombra di dubbio, ed è così diventata erede universale; le sorelle, come parenti collaterali, in presenza di un discendente diretto sono state cancellate dalla successione. La sua vita, ed anche la mia, sono cambiate. Le cose, trent’anni prima erano andate così: la madre di Nadia, Georgette, era sparita dopo una breve, intensissima relazione, e Marcello non aveva avuto modo di trovarla. Lei non gli aveva mai chiesto niente, né lui sapeva ufficialmente di avere avuto una figlia. Georgette né prima né dopo aveva detto niente a Nadia. Era stato l’avvocato che su indicazione postuma di Marcello, l’aveva contattata pregandola di fare il test del DNA già organizzato dallo stesso avvocato secondo i dettati espliciti del defunto, il nostro “de cuius”.

Marcello aveva intuito tutto? Forse l’aveva sempre saputo e non voleva rivelarsi per paura che le odiose sorelle organizzassero con tutto il tempo una causa preventiva? Non lo so; ma nella nostra bella casa, in salotto, c’è l’ingrandimento di una bella fotografia, scattata alla trattoria Mario, di noi tre. Marcello ha un bellissimo golf giallo, è abbronzato per il recente viaggio in India e mi stringe alla spalla col braccio destro: forse lui sapeva già che sarebbe diventato mio suocero, ma io non lo sapevo!

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