DAILY LA DATA

11 aprile 2006

Bernardo Provenzano, detto Binnu u tratturi, Zu Binnu e il ragioniere è stato latitante per 40 anni, prima di essere arrestato l’11 aprile 2006, in una masseria di Corleone.

Ricercato dal 1963, è stato uno dei capi più feroci e sanguinari di Cosa Nostra, secondo solo a Totò Riina, di cui prese il posto a capo della Cupola, negli anni Novanta dopo l’arresto de u curtu. Il soprannome u tratturi, infatti gli era stato dato per la violenza con cui toglieva di mezzo i nemici.

Originario di Corleone, dove era nato il 31 gennaio 1933, era affiliato all’inizio degli anni Sessanta alla cosca di Luciano Liggio, all’interno della quale si era fatto la fama di killer spietato e sanguinario.

Nel 1963 venne denunciato dai carabinieri di Corleone per l’omicidio del mafioso Francesco Paolo Streva, nonché per associazione a delinquere e porto abusivo di armi. Nel frattempo aveva fatto perdere le tracce. Di lui era rimasta solo una vecchia foto di quando aveva 26 anni e una registrazione vocale, poi sparita dal tribunale di Agrigento. Assolto in contumacia nel 1969 per insufficienza di prove, dall’accusa di aver commesso una serie di omicidi avvenuti a Corleone dal 1958, fu responsabile della strage di via Lazio, il 10 dicembre 1969, in cui venne ucciso il mafioso Michele Cavataio, detto il cobra, capo della famiglia dell’Acquasanta.

Quando Liggio fu arrestato nel 1974, Provenzano e Riina, soprannominati le belve, per la loro ferocia, divennero reggenti della “famiglia” di Corleone. Le vicende della cosiddetta “seconda guerra di mafia” che scatenarono dal 1981, sono note e portarono in pochi anni i corleonesi a controllare Cosa Nostra, fino a realizzare quella dittatura che impresse la svolta stragista alla mafia siciliana. Tuttavia, rispetto a Riina, Bernardo Provenzano era la parte “dialogante”, l’uomo “d’onore” che sapeva mediare.

Quando fu il suo turno come “capo dei capi”, dopo l’arresto di Riina, cambiò radicalmente i sistemi della Cupola, riuscendo a traghettare l’organizzazione criminale da un secolo all’altro attraverso gli affari invisibili, senza più bisogno di kalasnikov e tritolo. Si muoveva alla maniera dei vecchi padrini, impartendo ordini e dispensando consigli attraverso i suoi “pizzini”, che successivamente sarebbero stati determinanti per scovarlo e arrestarlo. Con lo stresso mezzo discuteva di appalti e omicidi, dava indicazioni di voto, spartiva i territori tra boss. Perfino Matteo Messina Denaro, gli chiedeva istruzioni su come muoversi.

E a tradire il boss pare sia stato proprio l’ultimo suo pizzino, inviato alla moglie la mattina stessa dell’arresto. Tramite questo minuscolo pezzetto di carta gli investigatori risalirono all’abitazione nella quale si rifugiava. Sottoposto al regime del 41-bis, fu rinchiuso prima nel carcere di Terni, poi di Novara. Figura chiave nelle indagini per la trattativa Stato-mafia, non ha mai voluto collaborare con la giustizia. Con la sua morte, avvenuta il 13 luglio del 2016, ha portato con sé segreti e misteri di una delle pagine più buie della nostra storia recente.

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