LA DATA

12 aprile 1633

Il 12 aprile 1633, a Roma, il Tribunale del Sant’Uffizio dette formalmente inizio al processo contro lo scienziato pisano Galileo Galilei, accusato di voler sovvertire la filosofia naturale aristotelica e le Sacre scritture. Condannato il 22 giugno dello stesso anno, fu costretto all’abiura delle proprie concezioni scientifiche, sostenute nel Dialogo sopra i massimi sistemi del mondo. Tutte le sue opere vennero quindi iscritte nell’Index librorum prohibitorum, l’elenco delle pubblicazioni proibite dalla Chiesa istituito dalla Congregazione della sacra romana e universale Inquisizione – il Sant’Uffizio appunto – durante il pontificato di Paolo IV.

I sistemi di cui parla il libro sono il tolemaico e il copernicano, mentre il dialogo è tra tre personaggi: Filippo Salviati (che sostiene il sistema tolemaico), Simplicio (quello copernicano) e Sagredo che, inizialmente neutrale, sposa infine la tesi che avrebbe rivoluzionato la visione dell’universo, ossia quella copernicana.

L’opera è considerata un pilastro della moderna concezione scientifica (detta galileiana), non solo per il contenuto, ma anche per la forma, che conciliava linguaggio e semplicità divulgativa. Prima ancora di essere un trattato scientifico, si presentava come una grande opera filosofica ed era scritto in volgare, affinché potesse essere letto anche da chi non conosceva il latino.

Dovranno passare ben 359 anni prima che Giovanni Paolo II, il 31 ottobre del 1992, di fronte alla sessione plenaria della Pontificia Accademia delle Scienze, dichiari riconosciuti gli errori commessi nei confronti di Galileo, chiudendo, con la riabilitazione dello scienziato, i lavori di una apposita commissione che lui stesso aveva istituito nel 1981. «Galileo ebbe molto a soffrire, non possiamo nasconderlo, da parte di uomini e organismi di Chiesa» sostenne il Pontefice nelle sue conclusioni.

Galilei era già stato denunciato nel 1615, dal frate domenicano Tommaso Caccini perché aveva sostenuto che fosse la terra a girare intorno al sole e non viceversa. Le sue teorie e il suo metodo rivoluzionario di ricerca e divulgazione, la convinzione che scienza e fede non fossero in conflitto, in quanto entrambi strumenti per comprendere la stessa verità che proviene da Dio, erano considerate una minaccia per la dottrina ecclesiastica. Sovvertivano l’ordine dell’universo, sui cui si basava anche il dogma della creazione, e mettevano in discussione la superiorità della scienza sulla fede.

Il Dialogo ebbe una fortunata accoglienza tra molti matematici e teologi del tempo, ma già pochi mesi dopo la pubblicazione si diffuse la voce che il libro sarebbe stato proibito. Il 7 agosto 1632 il papa dette ordine di sequestrarlo e fece convocare Galileo davanti al Sant’Uffizio. Minacciato anche di tortura, cercò di sostenere la tesi di aver solo illustrato il sistema copernicano come possibile alternativa a quello tolemaico, ma invano.

Galileo Galilei davanti al Sant’Uffizio. Olio su tela di Joseph Nicolas Robert-Fleury, 1847 (Musée du Louvre, Paris)

Sui motivi dell’abiura di Galileo si sono sprecati tre secoli di supposizioni e giudizi. Alcuni impietosi, come quello di Bertolt Brecht nell’opera teatrale Vita di Galielo .

Forse proprio per questo vale la pena rileggere una parte della formula che il vecchio scienziato, alla soglia dei 70 anni, fu costretto a recitare in ginocchio sulla pietra, davanti ai suoi aguzzini, sapendo di avere ragione e consapevole di aver cambiato per sempre il futuro della scienza. E senza dimenticare che, solo 33 anni prima, Giordano Bruno era stato arso sul rogo per eresia: «Da questo santo Officio mi è stato intimato che dovessi abbandonare la falsa opinione che il Sole sia centro del mondo e che non si muova, e che la Terra non sia il centro del mondo e che si muova, e che non potessi tenere, difendere né insegnare in qualsivoglia modo, né in voce, né in iscritto la detta falsa dottrina; pertanto, volendo io levar dalla mente delle Eminenze vostre e d’ogni fedel Cristiano questo veemente sospetto che giustamente grava su di me, con cuor sincero e fede non finta abiuro, maledico e detesto li suddetti errori et eresie, e giuro che per l’ avvenire non dirò mai più, né asserirò in voce o in iscritto cose tali per le quali si possa aver di me un simile sospetto».