È – stando al questionario sottoposto a 44.000 studenti canadesi dal “National College Health Assessment” nel 2016 e riportato in un articolo di Marcia Sirota pubblicato sull’“Huffingtonpost” – la percentuale di ragazzi «che affermano di aver seriamente preso in considerazione il suicidio, nell’anno precedente», con un aumento, rispetto a 3 anni prima, del 3,5%.
L’articolo fornisce numerosi altri dati riguardo un disagio giovanile che, per quanto analizzato esclusivamente in Canada, potrebbe serpeggiare anche in altre parti del mondo occidentale.
Riporta, per esempio, uno studio condotto dal Canadian Institute for Health Information secondo il quale tra il 2006 e il 2016 c’è stato «un aumento del 63% delle visite al pronto soccorso di bambini e giovani, dai 5 ai 24 anni, con problemi di salute mentale o legati all’abuso di sostanze, mentre i ricoveri sono schizzati al 67%».
Attingendo ad altri articoli nei quali è testimoniato questo malessere generazionale che porterebbe i più giovani ad avere «poca resilienza e una scarsa capacità di gestire il normale stress della vita» e gli addetti ai servizi di counseling a descrivere le proprie giornate «come il tentativo di fermare un’inondazione con un dito», superando la capacità effettiva di offrire supporto agli studenti di gran lunga la richiesta di servizi offerti, l’autrice pone la sua attenzione ai motivi che sottostanno all’aumento allarmante di problemi mentali nei giovani di oggi. «Suggerisco che la causa potrebbe essere l’epidemia del cosiddetto “helicopter parenting”», afferma, spiegando che con l’espressione “genitorialità elicottero” si indicano «quei genitori eccessivamente vicini ai loro figli, che li aiutano a superare tutti gli ostacoli che incontrano, soprattutto in ambito scolastico».
L’articolo non sottovaluta i disturbi che emergono in situazioni di difficoltà socioeconomiche (il 53% delle indagini sui maltrattamenti condotte in Ontario nel 2013, vede coinvolta una figura di accudimento principale che vive appunto in condizioni svantaggiate), ma punta l’obiettivo su quelle crisi legate alla salute mentale che di solito riguardano «le famiglie medio o alto-borghesi, con tempo e denaro a disposizione. Operai, tute blu, famiglie indigenti: qui i genitori non dispongono dei mezzi per indirizzare l’infanzia dei propri figli. Si preoccupano di cose fondamentali come il cibo e un tetto sulla testa. I miei colleghi dei centri di formazione professionale non assistevano a questo fenomeno. Lì gli studenti sanno come fare affidamento solo su se stessi».
L’autrice afferma che oggi sono fin troppi «i genitori del ceto medio-alto che, inavvertitamente, stanno danneggiando la salute mentale dei loro figli. Quando i genitori credono che viziare i figli, e farli crescere nella bambagia, significhi dare loro amore, causano un danno involontario».
Ed aggiunge: «I bambini devono imparare a ragionare con la propria testa, risolvere i problemi da soli, gestire lo stress e superare le avversità. Le competenze, le abitudini e l’atteggiamento che apprendono durante l’infanzia dovrebbero prepararli ad una vita adulta sana e realizzata. Sfortunatamente, quando i genitori sono così ansiosi da fare troppo per i figli, anche dopo che questi hanno superato i vent’anni, i ragazzi non sviluppano mai la forza necessaria a fare i conti con la vita di tutti i giorni».
La soluzione per l’autrice è prevalentemente di tipo culturale: «Dobbiamo educare i genitori alle insidie dell’approccio “elicottero”, e mostrare loro quanto sia importante fare un passo indietro e permettere ai figli di sviluppare capacità, atteggiamenti e abitudini necessari per il loro benessere e il successo futuri».