Sono gli anni di carcere che la Corte di Cassazione ha confermato a Francesco Schettino, per il naufragio della Costa Concordia, avvenuto il 13 gennaio 2012 di fronte alle coste dell’Isola del Giglio. «Non merita alcuna attenuante», scrive la Suprema Corte.
L’uomo del «salga a bordo, cazzo!» urlato dal capitano di fregata Gregorio De Falco, ascoltato e riascoltato in “mondovisione”, fino a diventare un autentico tormentone, passerà (forse) i prossimi 16 anni della sua vita in cella. Era ben consapevole del pericolo, ma non cambiò la rotta. Spavaldo come un guappo con i passeggeri e l’equipaggio, fu però tra i primi ad abbandonare la nave e a rifugiarsi in una stanza calda e asciutta dell’hotel Bahamas, a poche centinaia di metri dalla banchina dove cominciavano ad arrivare i primi naufraghi.
Trentadue i morti, 193 i feriti, conseguenze psicologiche drammatiche sui sopravvissuti, oltre 4.000 persone tra passeggeri ed equipaggio, danni ambientali gravissimi e altrettanto gravi danni patrimoniali.
La quarta sezione penale della Cassazione, motivando la decisione presa il 12 maggio, in 151 pagine analizza la condotta di Schettino a partire dalla pianificazione della rotta, tre ore prima del naufragio e lo inchioda alle sue responsabilità per non aver mantenuto «il livello di diligenza, prudenza e perizia oggettivamente dovuto ed esigibile». Seguono parole come «negligenza», «imperizia», «superficialità», «imprudenza», una «latitanza gestionale» dello «spericolato» capitano che è costata la vita a 32 persone.
Nei mesi successivi al disastro si è detto e si è letto che sarebbe potuta andare molto peggio, con molti più morti e feriti. Invece no. Quelle 32 persone potevano salvarsi. Tutte. Se solo l’allarme di emergenza generale fosse stato dato «alle 21.50 o al più tardi alle 22», pochi minuti dopo l’urto dello scafo contro gli scogli delle Scole, avvenuto alle 21.45.
Invece Schettino perde la testa, traccheggia, nega l’evidenza e solo alle 22.33 vengono lanciati i sette fischi che convenzionalmente indicano l’emergenza generale. La nave è ormai davanti a Punta Gabbianara e si sta adagiando su un fianco, quando, alle 22.54, con un’ora di ritardo, viene finalmente ordinato l’abbandono della nave.
«Il dovere di mantenere il comando nel pericolo non si può spingere fino al punto di esigere che il comandante affondi – scrive la Suprema Corte – sempre e comunque con la sua nave», ma «lo obbliga ad affrontare il pericolo incombente sulle persone a bordo, fino a quando l’esercizio del comando abbia concreta utilità».
La sentenza è la 35.585, per chi volesse leggerla.