DAILY LA DATA

21 maggio 4 a.C.

Lucio Anneo Seneca nasce in Iberia, a Cordova, quel giorno del 4 a.C. e le alterne vicende della sua vita ruotano tutte attorno a Roma, per quanto nasca e muoia altrove. Dante nel IV canto dell’Inferno lo colloca fra gli spiriti magni del Limbo, definendolo Seneca morale, perciò precisando che è per le sue opere filosofiche che ne entra a far parte, non per quelle letterarie. Del resto Quintiliano l’aveva detto: «parecchie pagine meritano d’essere meditate per l’impegno morale. Ma lo stile è inquinato, e – bisogna aggiungere – tanto più insidioso, perché ricco di vizi che incantano».

Oltre agli studi filosofici con i maestri stoici Attalo e Sozione, Seneca divenne famoso per l’attività forense; inviso a Messalina, moglie dell’imperatore Claudio, fu mandato in esilio in Corsica nel 41 d.C. con l’accusa di adulterio. Negli otto anni del suo esilio còrso si dedicò alla filosofia, scrivendo dialoghi e testi consolatori. Non disdegnando né la fama, né il potere, né il denaro, Roma era rimasta in cima ai suoi pensieri e, con il favore dei venti, vi fece ritorno nel 49 d.C. come precettore del futuro imperatore Nerone.

Giunto al potere grazie a una discreta scia di sangue – quello di Claudio, di Britannico, e dulcis in fundo, di sua madre Agrippina e di sua moglie Ottavia – proprio a Nerone Seneca dedica il De clementia, dove sostiene che la clemenza è tanto più ammirevole quanto maggiore è il potere di chi la manifesta, e mai insegnamento rimase più inascoltato dai potenti in generale e da Nerone in particolare. La clemenza é agli antipodi dell’ira, la quale è la malattia del tiranno e, secondo Seneca, va repressa sino a sottometterla, in un dominio di sé degno di Socrate, che quando si arrabbiava parlava sottovoce e rallentava il passo apposta.

Seneca è stoico, ma il potere gli interessa moltissimo: le due cose non si escludono a vicenda. Non riuscirà tuttavia ad ottenerlo. Il tentativo di controllare Nerone non andrà a buon fine: accusato di aver preso parte alla congiura dei Pisoni, ebbe l’ordine di uccidersi, e lo fece serenamente, o meglio, stoicamente.

Del resto fu in ottima compagnia, perché Nerone fece fuori mezza Roma: la stessa sorte toccò al poeta Lucano che, dopo aver ricevuto l’ordine di suicidarsi, si mise a declamare versi del Bellum civile, il poema per il quale l’imperatore lo odiava. Ci dice Tacito: «Tutti coloro che le vicende di quei tempi conosceranno dalle opere mie o da quelle d’altri ritengano per certo che, ogni volta che il principe ordinò esili o stragi, furono rese grazie agli dei e che quelle cerimonie che un tempo avevano caratterizzato fausti eventi ora erano il segno di pubbliche sventure. Non tacerò, tuttavia, neppure quelle deliberazioni del Senato che toccarono il fondo di ogni più inaudita adulazione, o del più basso e tollerante servilismo» (Annali, XIV).

Seneca l’incantatore «praticò quasi ogni sfera della letteratura: orazioni, opere poetiche, dialoghi, epistole»; per Quintiliano la sua opera rappresenta la solitaria rivoluzione di un singolo uomo contro l’intera tradizione greca e latina, e non riesce a collocarlo in nessun genere letterario: lo stile latino doveva dimenticarlo e rientrare nei ranghi della propria tradizione.

La filosofa del Novecento María Zambrano parlando del suo stile scrive: «È una questione di orecchio, un talento musicale, quello del sapiente; è un’attività incessante che percepisce, ed è un continuo accordo. È, in altre parole, un’arte. La morale si è trasformata in estetica e, come ogni estetica, ha qualcosa d’incomunicabile […]. Per Seneca è essenziale lo stile: è la sua arma, la sua arma migliore. Il corso della ragione che sembra così invulnerabile ha i suoi punti deboli: è una ragione flessibile, zoppicante, in cui in modo quasi impercettibile scorrono i sofismi, ma scorrono con tale fascino che diventa quasi impossibile scoprirli».

 

Seneca è anche il titolo di una canzone di Patti Smith contenuta nell’album Banga, l’undicesimo della cantautrice statunitense.