IL NUMERO

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Era il 1965 e fino ad allora le donne, figlie di un dio minore, non erano ammesse alla carriera di magistrato. Soltanto dopo che il Parlamento, il 9 febbraio 1963, approvò la legge sulla parità fra i sessi negli uffici pubblici e nelle professioni, otto donne poterono accedere alla carriera in magistratura.

La Corte Costituzionale ha spianato la strada, dal 1960 aveva aperto una parte delle carriere. Oggi il mare è un pochino più rosa che azzurro. Siamo al 52%, e le donne vincono i concorsi nel 63% dei casi. Marea rosa.

Da allora sono passati cinquant’anni, le donne in magistratura hanno superato nei numeri gli uomini, ma c’è ancora molta strada fare. Ancora oggi in magistratura la percentuale delle donne chiamate ad incarichi direttivi è bassa.

Maria Gabriella Luccioli, classe 1940, pioniera delle donne in magistratura, ricorda nel 2016 che quando entrò in magistratura vi era nei confronti suoi e delle sue colleghe diffidenza, il pregiudizio, la malcelata ostilità, il paternalismo. Percepiva il dovere di dare il massimo perché nessun errore le sarebbe stato perdonato.

Le donne hanno cambiato il diritto: la diversa sensibilità, il linguaggio, il modo di gestire i rapporti umani, di interpretare la norma e darne concretezza hanno vivificato la giurisdizione. Nel farsi diritto vivente le donne hanno contribuito a profonde innovazioni nel campo del diritto di famiglia, della tutela dei soggetti deboli, del concetto di tollerabilità della convivenza matrimoniale, della attribuzione del cognome dei figli, della ridefinizione del concetto di violenza

Ma i vertici sono rigidamente maschili. Nessuna donna è mai stata presidente della Corte di Cassazione, tra i membri del Csm ci sono solo tre sono donne e una sola è espressione dei giudici togati. Tre magistrati su quattro, tra coloro che esercitano funzioni direttive, sono uomini e lo sono poco meno di due terzi di quelli che esercitano funzioni semidirettive. La Corte Costituzionale ha avuto una esigua presenza delle donne nel suo contesto istituzionale. La stessa Costituzione è stata ambigua, un dibattito con tanti stereotipi, anche da parte di un futuro Presidente della Repubblica, Giovanni Leone, che avversava la presenza di donne ai vertici.

Gabriella Luccioli era anch’essa una delle otto donne entrate per prime in magistratura: «Eravamo una stranezza, il nostro entrare in un mondo da sempre maschile ci faceva sentire sempre sotto esame». Luccioli ha fatto della differenza di genere un elemento arricchente per l’istituzione e per se stessa.

Trent’anni dopo Luccioli, entra in Magistratura Paola Di Nicola, tutt’altra generazione. Non percepiva nessuna differenza di genere, aveva un padre magistrato, frequentava l’ambiente fin da piccola. «Poi ho capito, è una lotta continua contro la delegittimazione quotidiana a volte sottile, che passa per gli imputati, i testimoni, gli avvocati, che ti chiamano signora o signorina, non giudice o pm». Racconta tanti esempi: lo straniero marocchino che si rifiuta di parlare perché lei e le traduttrici sono donne, o l’imputato che non la riconosce come giudice, che la guarda come “femmina”, scruta le sue forme, «nonostante fossi misurata – dice – l’eleganza del rispetto dell’altro. La tua reazione deve essere forte e autorevole, di lezione per tutti i presenti. E devi essere pronta a contrattaccare sempre». Paola Di Nicola definisce Gabriella Luccioli «la mia modella».

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