CRITICA LIBRI

Alla ricerca della tristezza perduta

FELICITA PERRONE*

Ci sono romanzi che si leggono tenendo in mano un segnalibro per indicare la pagina dove si è fermata la lettura e riprenderla più agevolmente. Ci sono poi dei romanzi che si leggono tenendo in mano una matita per sottolineare parole, frasi o periodi particolari, per annotare a margine pensieri, osservazioni: Il Sorriso del pagliaccio triste di Cesare Paradiso è uno di questi. Già dalle prime pagine che scorrono rapide sotto gli occhi si percepisce come la lettura non potrà essere puro intrattenimento o semplice svago, bensì occasione di conoscenza, riflessione, confronto. Un romanzo denso di personaggi, fatti, vicende, raccontati con una scrittura apparentemente semplice e agevole, ma in realtà molto sorvegliata e coinvolgente.

Non è la storia di un pagliaccio, come il titolo farebbe pensare. Questa figura familiare (la cui caratteristica precipua, si sa, è di essere allegra e divertire a ogni costo) non è la protagonista. Non lo è neppure nel capitolo a lei dedicato, dove il pagliaccio non si muove, non agisce, evocato invece nella sua fissità, è un’icona rappresentata nella stampa trovata per caso su una bancarella in una fiera. I signori Napoli, i protagonisti, ne avevano acquistate più copie, una per ogni figlio, in modo che fosse un’immagine sempre presente nella loro vita. Una sorta di finzione al quadrato dunque: finzione dell’arte nella finzione romanzesca. E nello sviluppo della trama quell’immagine conserverà, in sottofondo, il suo risvolto enigmatico: all’ingenua domanda del figlio sul perché quel pagliaccio avesse un sorriso triste, Luciano risponde in modo sbrigativo: «avrà passato un guaio». E più avanti, in un momento particolarmente disarmante, il padre non fa altro che tenere «lo sguardo fisso, chissà perché sul quadro del pagliaccio». È insomma una figura evocata nella veste malinconica, di sapore romantico, che ci fa pensare al personaggio dell’opera di Leoncavallo, a quel suo cantare a se stesso «ridi pagliaccio, ridi del duol che t’avvelena il cor». Si potrebbe spiegare così l’ossimoro nel sintagma del titolo del romanzo giacché, a lettura ultimata, si percepisce come il vero soggetto non sia tanto il sostantivo sorriso, quanto piuttosto l’aggettivo triste, parola chiave ricorrente, declinata nelle forme derivate (tristemente, tristezza, rattristare, ecc.), insieme con termini di campi semantici affini (infelice, mesto, addolorato, ecc.) disseminati nel testo e che danno il senso del vago pessimismo, a tratti anche un po’ nostalgico, che aleggia nel libro.

Una domanda al primo rigo («Nonna, com’era il tuo abito da sposa?») è l’espediente narrativo, il pre-testo per dare l’avvio alla costruzione romanzesca, ovvero al lungo percorso a ritroso nel mondo del ricordo.

La dimensione temporale struttura dunque la produzione del testo: il tempo dell’io narrante che oscilla tra presente e passato, e il tempo del narratore che interviene per prolungare e completare il racconto principale, tanto da non riuscire a volte a distinguere tra la sua parola e quella di Eugenia, la protagonista, in un passaggio senza soluzione dal discorso diretto al discorso indiretto libero. C’è poi il tempo del presente della scrittura, il terzo millennio.

Subito le coordinate spazio-temporali: 2000 l’angolo delle confidenze è il titolo del primo capitolo che ritorna in quasi tutti gli altri come filo conduttore. Un numero che è una data (il momento della narrazione), accostata a una figura geometrica che è però un luogo fisico (nel salotto di casa), laddove si svolge la lunga conversazione fra nonna e nipote, descritto nei dettagli e che diventa luogo dell’anima e ancor più del cuore, perché accoglie anche un vissuto di ricordi, affetti, emozioni, sentimenti, passioni. Ha così inizio la lunga saga di una normale famiglia medio borghese e dei cinque figli, lungo la seconda metà del Novecento. Una micro-storia inframmezzata da una serie di rapidi squarci sulla macro-storia socio-politico-culturale, in un costante viavai della scrittura dall’evocazione di vicende di vita quotidiana alla rievocazione di vari accadimenti nazionali e internazionali. Queste le due direttrici fondamentali dello sviluppo narrativo che a tratti s’intersecano, a tratti procedono accostate in una forma di parallelismo cronologico tra un capitolo e l’altro, o anche all’interno di uno stesso capitolo, creando talvolta sottili corrispondenze tra fatti privati e pubblici. Da notare che conosciamo il “quando” ma non il “dove” della storia: i numerosi personaggi, sempre indicati con i loro nomi, vanno in scena in posti non definiti, volutamente, in modo che il lettore possa proiettarsi o commisurarsi con le vite altrui. A tale indeterminatezza geografica corrisponde, al contrario, una meticolosa, quasi ossessiva, indicazione temporale, come testimonia la ricorrenza insistita di date che non permettono di distrarsi dalla percezione del tempo che passa ineluttabile. Un tempo scandito lessicalmente in anni, mesi, giorni, ore, momenti, tra un prima e un dopo, tra una volta e un oltre, tra giovinezza e vecchiaia. Un continuo fluire che porta con sé modificazione in cose, persone, consuetudini e visioni del mondo, di generazione in generazione.

   Il Tempo dunque vero grande tema, e con esso collegato il tema della Morte. Non a caso nel momento gioioso della nascita del primo figlio maschio che «riempiva di altra vita» la vita dei genitori, irrompe l’immagine del libro di Pavese, sul comò accanto alla culla, col segnalibro fermo su Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, la poesia preferita da papà Luciano, quasi un lontano presagio della sua stessa scomparsa. E uno degli ultimi capitoli è dedicato proprio a questo momento supremo: parole che tentano di esorcizzare il punto finale di ogni esistenza che forse potrà continuare chissà sotto quale altra forma, chissà in quale altro luogo. Fiducia questa sorretta dalla forza dell’amore, altro grande tema del romanzo, raccontato nelle sue varie sfaccettature: dagli «amoretti giovanili» all’«amore che strazia», all’amore platonico, all’amore che non conosce confini, che va oltre la morte, sublimato nelle pagine conclusive del romanzo, sorta di testamento spirituale che Eugenia consegna alla nipote Gegia.

E una domanda, rivolta sempre dalla nipote («È ancora grande il dolore, nonna?»), servirà per chiudere il lungo dialogo su cui era imbastita tutta la diegesi. Una domanda simmetrica, speculare a quella iniziale che aveva “provocato” il racconto, ma in tutt’altra prospettiva: laddove la prima apriva su un dato esteriore e superficiale, rievocando un momento di pienezza gioiosa (la festa nuziale), l’ultima domanda apre sulla dimensione interiore e profonda, rievocando un’esperienza di mancanza, di vuoto, di rimpianto di ciò che non sarà mai più.

E allora non è forse questa la parabola della condizione umana, nella sua polarità essenziale tra felicità e dolore, adombrata proprio nella “tristezza” del pagliaccio che “sorride”?

CESARE PARADISO, Il sorriso del pagliaccio triste, Portaparole, 2017, pp. 252, € 18

* docente di Letteratura moderna, Università del Salento

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