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Anna Poma racconta perché un Festival dei Matti

 

Anna Poma ha il fascino discreto dell’intelligenza e uno sguardo determinato che inchioda l’interlocutore. Del Festival dei Matti di Venezia, ormai lanciato verso il decennale, è stata l’ideatrice e l’anima, fin dalla prima edizione del 2009, anche se ci tiene molto a definirsi parte di un gruppo, di un meccanismo ben oliato con sue specificità creative e di coordinamento.

Innegabile che le motivazioni di fondo della kermesse – cresciuta nel corso degli anni fino a divenire un appuntamento irrinunciabile – e la sua organizzazione siano il frutto di una precisa volontà e di una lunga pratica: «Si tratta di una passione, di una consapevolezza – conferma Anna Poma – che si legano a due itinerari paralleli della mia esistenza. Mi sono laureata in Filosofia e poi in Psicologia. Dopo qualche anno d’insegnamento, attività che non mi convinceva del tutto, dal 1998 ho scelto di operare nel campo della salute mentale. L’idea di Basaglia secondo cui la follia non è altro che una condizione umana mi ha illuminata e ha trasformato il mio percorso… Penso a quel punto delle Conferenze brasiliane in cui Basaglia scrive che è necessario ‘”riconoscere la follia là dove essa ha origine, cioè nella vita”. Ecco, sono partita da lì».

Una volta chiarite le premesse, il percorso di Anna è stato, anche se in salita, limpido e preciso: consulente del Dipartimento di Salute mentale di Treviso per specifici progetti di deistituzionalizzazione, dal 2003 è portavoce del Forum Veneto per la salute mentale e, negli ultimi anni, è divenuta referente regionale del comitato stop OPG (Ospedali Psichiatrici Giudiziari). Svolge attività di psicoterapeuta tra Venezia e Treviso ed è formatrice in diverse istituzioni. Dal 1994 al 2000 ha collaborato alle pagine culturali de “Il Secolo XIX°” di Genova e, in seguito, ha scritto per i quotidiani veneti del gruppo “Repubblica”-“L’Espresso”.

Un passo importante, anche per la nascita del Festival dei Matti, lo compie nel 2002, quando decide  di aprire con alcuni colleghi che condividono i suoi obiettivi una piccola cooperativa sociale: «L’idea – spiega – era (ed è ancora) quella di favorire la qualità sociale e le pratiche di cittadinanza; rimuovere le barriere culturali, istituzionali, ideologiche, anche emotive… tutto ciò che mina i legami sociali, impoverisce le opportunità, senza fornire alternative all’omologazione o all’esclusione». Il nome scelto per questo germe di futuro racconta più che mai di Anna e del suo sentire, del suo approccio riflessivo alla vita: «Con-Tatto, così l’abbiamo chiamata – aggiunge – perché era necessario esprimere due propositi precisi: il “contatto” inteso come incontro e confronto diretto, come capacità di muoversi in prossimità, di costruire le condizioni di una vicinanza che sostenga le persone nel riconoscere i propri bisogni, nella costruzione delle strategie e dei processi necessari a soddisfarli. E poi il “tatto”, cioè l’impegno a non oltrepassare il limite, quando la vicinanza si trasforma in usurpazione».

Con questo spirito, Con-Tatto ha affrontato, da subito, le tematiche inerenti al disagio mentale: «Ci siamo accorti – racconta Anna – che solo lavorando anche in ambito culturale è possibile combattere i luoghi comuni e gli stereotipi che persistono. Bisogna far circolare le idee e portare le persone a riflettere e a ragionare su qualcosa che non si conosce ancora a fondo».

I primi tentativi del gruppo di lavoro ottengono risultati positivi, ma non di grande richiamo, soprattutto dal punto di vista della partecipazione. Poi, nel 2009, l’idea del Festival. L’evento, svoltosi al Teatro Goldoni il 9 e 10 ottobre di quell’anno, ottiene un successo insperato: «È difficile – commenta Anna Poma, ricordando quei giorni – trovare una formula che, da un lato, non respinga chi crede di essere estraneo all’argomento e, dall’altro, non attiri esclusivamente un pubblico esperto, carico di un (vero o presunto) apparato di conoscenze specifiche… Credo che, con il Festival, fin dalla sua prima edizione, siamo riusciti a produrre un effetto molto diverso. Ad esempio, abbiamo creato un clima favorevole a svelare che ciascuno di noi, in qualche momento dell’esistenza, è inciampato nel male di vivere, o in qualcosa che può essere catalogato come tale. Di solito, a ben pensarci, non siamo pronti a farne una riflessione condivisa, probabilmente perché temiamo lo sguardo oggettivante dei tecnici, sempre pronti a mettersi in cattedra e a tracciare confini molto netti tra cosa si può dire e cosa no».

Invece Anna Poma, con l’equipaggio del Festival dei Matti, lavora un anno dopo l’altro per smontare la convinzione che soltanto linee di demarcazione rigide portino a trovare soluzioni: «Certo – commenta – ci vuole misura, bisogna stare attenti agli sbandamenti. Quello che conta è creare situazioni in cui si possano riformulare traiettorie d’incontro tra persone che, di solito, non comunicano; nei dibattiti, fin da subito, abbiamo fatto sì che emergessero i più tipici luoghi comuni sul disturbo mentale… per accorgerci, infine, di quanto i mattoni che costruiscono le mura dello stigma provengano, in realtà, da un’interpretazione fuorviante del ruolo dello psichiatra, dal non riconoscimento della sua precarietà».

La risposta, nel 2009, è stata importante, perché ha riportato la follia al centro di una riflessione seria e multidisciplinare che ne ha valorizzato le potenzialità creative e comunicative: come nel monito basagliano tanto caro ad Anna, sono state evidenziate le sue componenti vitali, quotidianamente rimosse, nella vita di ciascuno. «La gente, in quell’evento al Teatro Goldoni, ancora un abbozzo, un esperimento – ricorda – non aveva paura. Non aveva paura né di raccontare le proprie esperienze, né di chiedere informazioni, di rivelarsi curiosa. Abbiamo compreso, già da allora, che eravamo riusciti a togliere l’alone di pesantezza, di tabù che solitamente avvolge queste tematiche. Abbiamo coinvolto, da subito, persone del mondo dello spettacolo, della cultura, dell’informazione disposte, come Elio di Elio e Storie Tese, a raccontare i propri inciampi. Ciò che è passato, anche se da principio gli ambienti degli addetti ai lavori hanno taciuto, è che ci si può rifamilizzare con questi temi».

Fino all’edizione 2018 (di cui TESSERE ha offerto un reportage), la cooperativa Con-Tatto è riuscita a fare il miracolo e a produrre – con le proprie forze e grazie anche ad un manipolo di volontari – un prodotto di grande qualità: «Con l’andar del tempo – commenta Anna – pur continuando a lavorare con i nostri ristretti fondi, siamo riusciti a trovare partner e agganci notevoli, un po’ per le agenzie del territorio, un po’ perché hanno iniziato a collaborare con noi personalità impegnate su questi temi, un po’ per l’accordo con Palazzo Grassi. Così il pubblico è cresciuto; ora l’appuntamento con il Festival (che è diventato primaverile) è sempre più un’occasione per allargare la rete dei nostri contatti».

Ora che la legge Basaglia ha quarant’anni, il dibattito si è fatto ancor più vivo, e vario nelle argomentazioni. «I problemi restano, ovvio – sostiene – il Festival dei Matti, già dal titolo un po’ politicamente scorretto, lascia aperti dei quesiti. Essere considerati matti significa, in una certa misura, essere riconosciuti nelle proprie specificità, nel proprio essere unici. Ci è sembrato più interessante rimettere in circolazione i temi della cittadinanza della follia, piuttosto che le tecniche. Tuttavia, ancora, chi ha una sofferenza mentale continua ad essere escluso e rischia di perdere i diritti che la nostra legislazione dovrebbe garantire. Sono temi di grande attualità – prosegue – perché ci si interroga sul nostro ordine sociale. Consideriamo, ad esempio, le campagne contro lo stigma. Alcune sono poste in essere da Dipartimenti di Salute Mentale, ma vengono spesso compromesse da una contraddizione di base, perché molti luoghi della psichiatria, in realtà, continuano a proporre pratiche estremamente restrittive, che alimentano lo stigma, anziché combatterlo».

Quello che conta, dalle parole di Anna Poma lo si evince bene, è che il Festival – nell’idea che lo ha generato e nella prospettiva dei suoi organizzatori – non vuole limitarsi ad essere una passerella, sia pur prestigiosa ed interessante: «Oltre a promuovere la partecipazione e il dialogo, – conferma – vorremmo costruire una vera e propria macchina d’impresa, nella quale l’esperienza di persone con sofferenza mentale diventi il cuore del progetto. Se riuscissimo a creare un’opportunità di formazione e di lavoro per questi soggetti, coinvolgendoli stabilmente nella produzione del Festival (e ci stiamo impegnando in questo senso), avremmo creato qualcosa di profondamente diverso. Mettere insieme e contaminare le esperienze, con risultati concreti: queste sono le nostre ambizioni. Il desiderio – conclude con un sorriso – è il Festival si trasformi, grazie anche al coinvolgimento di entità diverse (Scuole, Università, istituzioni culturali, associazioni che si battono per ‘il diritto di avere diritti’), in una struttura condivisa, capace di modificare i luoghi comuni. Con nuove parole, sguardi, storie; sempre, e oggi più che mai». Arrivederci a presto, Anna, il Festival dei Matti non va in vacanza.