Se l’uomo, per natura, a bisogno di miti e di eroi, Ayrton Senna è stato uno di questi. «Come Achille, il più grande degli Achei», lo ha definito Gianni Cerasuolo nel suo articolo Ayrton, la leggenda, pubblicato sulla rivista “Succedeoggi”, gemella di TESSERE.
Ayrton Senna da Silva è stato come Achille, il più grande degli Achei, una furia in pista, il suo campo di battaglia. Forse era il migliore dei piloti, lasciava tutti dietro sul giro secco, l’uomo della pioggia quando l’acqua cadeva abbondante sulla corsa. E come l’eroe omerico fu generoso con gli amici e capace di slanci improvvisi come quando andò a prendere e a salvare Comas, un pilota belga che era svenuto nell’auto che andava a fuoco. Allo stesso tempo, fu duro con i nemici, contro i quali covava un’ira funesta: buttò fuori pista Prost e venne ricambiato, non sopportava Schumacher e una volta lo prese per il collo, fece a botte con Mansell ed Irvine. Non amava il Circo Formula Uno, pensò più volte di ritirarsi, di cessare di combattere come il protagonista del poema insofferente ai torti di Agamennone. Se il figlio di Teti parlava con gli dei, Senna parlava con Dio.
Portava la Bibbia con sé, prima delle gare si concentrava leggendo passi delle sacre scritture. In un Gran Premio del Giappone, era il 1988 anno del suo primo titolo mondiale, disse: «Ho visto Dio vicino a me alla partenza». Ma si arrabbiava quando qualcuno ironizzava sulla sua fede: «Io non sono imbattibile per la mia fede in Dio. Ho detto soltanto che Dio mi dà la forza e che la vita è un suo dono e siamo obbligati a mantenerlo con cura». Sulla sua tomba, la numero 11 del cimitero di Morumby a San Paolo del Brasile c’è scritto: «Nada pode me separar do amor de Deus».
Senna morì venticinque anni fa, il primo di maggio del 1994 schiantandosi alla curva del Tamburello di Imola. Il piantone della sua Williams bianca e blu cedette di schianto, avevano fatto una saldatura e un pezzetto andò a conficcarsi nella tempia del campione. Come un proiettile, una freccia scagliata dal cecchino dalle mura di Troia. Aveva 34 anni. Vinse tre titoli mondiali (1988, 1990, 1991). Una volta il brasiliano rivelò a Carlo Grandini del Corriere della Sera: «La morte non mi fa paura con il mestiere che faccio. Ma ogni volta che parlo con Dio, che un giorno me la presenterà ufficialmente, lo prego di questo: fallo subito e bene. Mi terrorizza un’ipotesi: di farmi male e di finire il mio tempo in carrozzella. Regazzoni e Williams sono due eroi, io no». Iddio lo ha accontentato.
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