CRITICA FILM

Blade Runner, un film non replicante

“Blade Runner 2049” è un’esperienza multisensoriale còlta e viscerale ma anche una struggente epica fantascientifica sul mondo che è stato, è, sarà. Insomma, né un remake né (solo) un film di cassetta

VALENTINA MEZZACAPPA

Sarebbe una vera ingiustizia oltre che un vero peccato farsi tirare dentro quel solito vecchio discorso che puntualmente torna a galla ogni qual volta il cinema decide di rispolverare vecchi capolavori che hanno segnato l’immaginario collettivo di intere generazioni. Il rischio c’è stato anche con Blade Runner 2049 (e qualcuno ci è cascato…) benché non sia un remake ma più un sequel visto che la storia si svolge trenta anni dopo quella che tutti conosciamo e ha come protagonista un nuovo Blade Runner, Kappa, (Ryan Gosling, naturalmente accanto a Harrison Ford) chiamato a far luce su un mistero che potrebbe dare il colpo di grazia ai precari equilibri di una società già in preda al caos.

Blade Runner 2049 è un’esperienza multisensoriale còlta e viscerale ma anche una struggente epica fantascientifica sul mondo che è stato, è, sarà. Nella regia di Denis Villenueve la pittura fa sua la dimensione del movimento, l’anarchia e la crudezza della performance art sporcano le convenzioni del blockbuster, il suono supera il fenomeno fisico della mera vibrazione viaggiante e diventa nota e narrazione, un gioco sapiente di cromie risveglia il senso dell’olfatto e del tatto. E il racconto delle avventure del nuovo Blade Runner riesce ad affrontare e denunciare piaghe universali dell’umanità passata e contemporanea senza retorica, senza vivere di rendita, ma facendo esclusivamente affidamento sulla forza dirompente delle sue immagini e dei suoi contenuti.

Le fusioni culturali che si manifestano attraverso la compresenza di Bento Box, architetture socialiste, giganteschi ologrammi, costumi che ricordano tanto quegli Anni Ottanta spremuti e abbandonati dalla destra dirigente, il multilinguismo e un senso della geografia borderline la dicono lunga sul futuro della globalizzazione. Si ritrovano riferimenti (voluti?, inconsci?) all’Underground Railroad, momenti in cui Edward Hopper sembra aver preso il sopravvento sulla fotografia, altri in cui il mondo del perfido e bidimensionale Wallace sembra esser stato concepito dai Philip Glass e Bob Wilson di Einstein on the Beach.

L’articolo su “Succedeoggi”

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