CRITICA FUMETTI MOSTRE

Da principio fu il Golem: se i fumetti parlano ebraico

Strana coppia, Fabrice Sapolsky e Fred Polaniecki: già autore di fumetti per la Marvel l’uno, l’altro presidente della congregazione Kol Israel di Brooklyn. Due ebrei ortodossi che si sono inventati, circa tre anni fa, il primo “Jewish Comic Con” e l’hanno ambientato in una sinagoga storica di New York, a Crown Heights, dove ha sede anche il quartier generale del movimento Chabad-Lubavitch. Un successo: affluenza di pubblico, interesse di critica, con tanto di profili Facebook e Twitter. Non c’è da stupirsi. Alla faccia dell’annosa questione su ebraismo e aniconicità, è pur vero che l’arte di autori ebrei esiste concretamente, e il dubbio amletico se sia sufficiente essere ebreo e artista per potersi definire un artista ebreo, trova nei fatti sufficienti prove della sua intima contraddizione. Come spiegare altrimenti – nel cuore di una tradizione iconoclasta come quella ebraica – figure come Modigliani, Soutine, Lucien Freud?

Quello che, forse, è meno noto (e qui si comprende l’azzardo di Sapolsky e Polaniecki) è che il mondo dei comics statunitensi, e dei suoi supereroi, parla ebraico da sempre. Da Superman a Batman, passando per X-Men, Daredevil, Spider-Man, Thor e Silver Surfer: i creatori dei grandi personaggi in calzamaglia dell’immaginario americano sono tutti figli degli immigrati europei sbarcati ad Ellis Island agli inizi del secolo scorso; pubblicano le prime storie a fumetti nella stampa yiddish e, quando decidono di sfondare, si americanizzano. Stanley Martin Lieber diventa Stan Lee e con Jacob Kurtzberg (ossia Jack Kirby) collaborano alla nascita di Popeye, inventano i Fantastici Quattro e X-Men. Robert Kahn, come Bob Kane, crea Batman, l’eroe di Gothan City. Jerome, anzi Jerry, Siegel e Joe Shuster (che prima si chiamava Joseph) sono i padri di Superman: lo fanno arrivare da lontano, verso la metà degli anni Trenta, ha anche lui una doppia identità (alias Clark Kent), ma il nome kryptoniano è Kal-El, che in ebraico vuol dire “voce o vascello di Dio”.

L’archetipo pare essere Mosè, anch’egli capace – sotto l’aspetto mite – di dividere il mar Rosso, trasformare i bastoni in serpi e parlare con i roveti ardenti. Oppure il Golem, come sostiene Will Eisner (a sua volta l’inventore di Spirit e della graphic novel): «Il silenzioso gigante di argilla è il precursore della mitologia del supereroe – scrive – e gli ebrei, da sempre perseguitati, avevano bisogno di un essere capace di proteggerli dalle forze oscure». La mascella squadrata e le imprese titaniche affrancano da un futuro sempre più minaccioso: Superman, Champion of the oppressed è il titolo della rivista a fumetti Action Comic su cui viene pubblicato nel 1938. Nel numero 17 dell’estate 1942, in pieno conflitto, con Germania e Italia sconvolte dalle leggi razziali, in copertina appare il supereroe con il mantello rosso che cattura Hitler e l’imperatore giapponese Hirohito. Caso o preveggenza?

Stigmatizzato da Goebbels come «eroe tipicamente ebraico», Superman avrà tuttavia anche un clone fascista in Ciclone, l’Uomo di acciaio del 1939. Da quando lo Schwarze Korps (il settimanale delle SS), il 25 aprile del 1940, definisce lo stesso Siegel «un individuo circonciso intellettualmente e fisicamente», è passata molta acqua sotto i ponti. Tuttavia, l’interesse per comics e mondo ebraico, negli ultimi anni, ha preso nuove, insospettabili direzioni.
Ne è testimonianza – stimolante, curiosa – una bella mostra che s’inaugura il 20 marzo al Museo Ebraico di Venezia. Voluta dallo stesso Museo, Comunità ebraica veneziana e CoopCulture, con il patrocinio del Consolato Generale del Giappone a Milano e dell’AEPJ (Associazione europea per la preservazione del patrimonio ebraico), s’intitola Jewish Manga art – La bellezza del rigore e offre al pubblico, fino al 28 aprile, una serie di tavole manga a soggetto ebraico disegnate da Thomas Carlo Lay. Di origine cagliaritana, ebreo, vissuto a Parigi (dove ha anche frequentato l’Accademia di Arte Drammatica), Lay è oggi l’unico mangaka occidentale formato in Giappone e primo assistente di Yumiko Igarashi, la celebre autrice di Candy Candy e Georgie (cartoons di culto per milioni di bambini in tutto il mondo dalla fine degli anni Settanta al 1997). «Il mio intento oggi – ha spiegato Lay – è quello di unire la spiritualità ebraica con l’iconografia di un’arte specifica e complessa come quella nipponica dei manga, radicata nella cultura giapponese già da Hokusai». L’artista si riferisce probabilmente a quelle immagini lontane (le prove mal riuscite di stampe a colori, usate come carte d’imballo per il tè spedito via mare in Occidente) che lo stesso Hokusai definiva “immagini capricciose”, manga appunto: gente al lavoro, aquiloni, animali, paesaggi.

Nel corso del tempo, i manga sono divenuti un genere specifico di storie illustrate, acquisendo caratteristiche connotanti: gli occhi enormi dei personaggi (che, tuttavia, Osamu Tezuka, grande autore di Kimba, il leone bianco ha ammesso di aver mutuato dal lungometraggio disneyano Bambi); nuovi moduli espressivi, con i personaggi trasformati talvolta in esasperate caricature, come nel teatro No; atteggiamenti comportamentali tipici della cultura del Sol Levante (senso del dovere, sentimenti di vergogna, bisogno di eccellere). In Italia, l’avvento dei manga risale alla fine degli anni Settanta, quando la Fabbri Editori ripubblica la rivista a fumetti Il grande Mazinga; nel 1980, lo stesso editore fa esordire il settimanale Candy Candy. Sempre nel medesimo periodo, le reti televisive occidentali – prima fra tutte la RAI – scoprono i disegni animati giapponesi e iniziano ad importarli, a partire da Heidi (realizzato in coproduzione con la Germania).

Così come le stampe “capricciose” avevano influenzato gli artisti occidentali del diciannovesimo secolo, i manga hanno avuto molta presa sugli autori occidentali e sul pubblico di oggi: «Le mie opere sono una specie di ponte culturale, anche per far piazza pulita di tanti pregiudizi … un contributo alla lotta contro l’antisemitismo» afferma Thomas Lay, che è stato definito dalla critica «inedito, innovativo ed inclusivo». Con il tipico stile Igarashi, in tavole realizzate con maestria personale, uso accurato del colore e dei supporti grafici, Lay ambienta i propri soggetti in una quotidianità ebraica fortemente simbolica: mentre studiano, celebrano la festa di Sukkot, con tanto di kippah in testa e payot (boccoli) ad incorniciare il volto. «Quella ebraica e quella giapponese sembrano due culture lontanissime – sostiene l’artista – e invece non è vero». Proprio quel rigore che dà il titolo alla mostra (negli atti, nei simboli, nei comportamenti) sta a testimoniarlo. «Il mio mercato – conclude Lay – è prevalentemente ebraico, e si concentra tra Italia, Israele e gli Stati Uniti. Però, ai giovani artisti consiglierei di essere sempre curiosi, d’interessarsi al lavoro degli altri, alle differenti forme di cultura». Un modo come un altro per concorrere a quel tikkun ‘olam, a quel “restaurare il mondo” caro alla tradizione ebraica che tutti salva, senza distinzione: una piccola grande rivoluzione etica.