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Che differenza c’è fra “traductio” e “translatio”?

Decodificare e ri-codificare: fin dal Cinquecento l’atto di tradurre è stato attraversato da una contraddizione tra i termini traductio e translatio. Raoul Precht  di “Succedeoggi” ha tentato di svelare dove nasce questa “abitudine creativa”.

RAOUL PRECHT

Sembra che il primo a tracciare la famosa o famigerata equivalenza fra traduttori e traditori sia stato, nel 1549, Joachim du Bellay (nella foto sotto), poeta francese celebre da noi soprattutto per la sua rielaborazione del topos di Roma quale caput mundi ma anche città in rovina e ricettacolo di tutte le infamie. Nella sua Déffense et illustration de la langue française du Bellay accenna ai “mauvais traducteurs… vrayement mieux dignes d’estre appellés traditeurs que traducteurs”.

Il bisticcio – ricordato fra gli altri da Roman Jakobson in un saggio ormai classico dal titolo Aspetti linguistici della traduzione (nei Saggi di linguistica generale) e, come nota Folena in una nota di Volgarizzare e tradurre, particolarmente mal tradotto in italiano (essendo incappato anche Jakobson in un traduttore-traditore, evidentemente!) – apre la strada a un’ulteriore paronomasia o annominazione, quella fra traditore e tradizione. Sicché, continuando a giocare, possiamo e forse dobbiamo chiederci di quale tradizione il traduttore sarà poi il solerte traditore, e se le tradizioni tutte, per il loro stesso configurarsi come corpus dottrinario e monolitico, non meritino di essere tradite. Quando si parla di quest’arte, o artigianato, ecco che tutto sembra sfumare nel gioco di parole, o, peggio, nell’equivoco.

Non a caso, anche il primo uso del termine traducere avrebbe origine da un presunto errore d’interpretazione: in una lettera del 5 settembre 1400 Leonardo Bruni (nella foto in basso) legge infatti in modo inusuale il passo “Vocabulum graecum traductum in linguam romanam” delle Noctes (I, 18, 1) di Aulo Gellio (nella foto accanto). Se per questi traductio, al contrario di translatio, indicava l’introduzione in una lingua di un vocabolo preso di peso da un’altra, ossia quello che oggi chiameremmo un prestito, Bruni sbaglia, o più probabilmente (ipotizza sempre Folena) coglie astutamente l’occasione per intendere il contrario e propagare un neologismo che meglio si adatti alla nuova temperie introdotta dall’Umanesimo italiano. Il termine translatio, che indicava un cambiamento di status, o un “trasporto”, è così soppiantato da un vocabolo di pari se non maggiore ambiguità, che mette l’accento non solo e non tanto sull’atto dell’attraversamento da un luogo (anche mentale) a un altro, ma soprattutto sulla volontarietà e soggettività di quel ducere o condurre.

Eppure, i conti con l’antica translatio non sono ancora del tutto chiusi, se si pensa che i più recenti contributi nel campo della filosofia della traduzione – mi riferisco per esempio e fra molti altri a un recente articolo del filosofo Miguel Candel – si appuntano proprio su quella terra di nessuno che traducendo attraversiamo, siamo anzi in qualche modo costretti ad attraversare. In mancanza di un codice assoluto che presti una sostanza universale al concetto in sé, il momento della traduzione è preceduto da un istante magico e misterioso nel quale il termine della lingua d’origine è stato sì decodificato, ma non ancora ricodificato nella lingua di destinazione. Immaginiamo di dover saltare un abisso sapendo che davanti a noi c’è un sostegno che ci terrà ancorati alla vita e che ci sarà facile afferrare; eppure, per un istante, un solo istante, nella nostra mente balena un dubbio, minimo, certo, ma non del tutto trascurabile. E se, malgrado tutto, l’operazione non riuscisse? Ecco che il transito tra la lingua che si conosce meno e quella che si conosce di più o meglio – non a caso, ricorda Candel, si traduce prevalentemente verso la madrelingua, perché se si ignora da dove si viene, è opportuno sapere almeno dove si andrà a parare – si risolve in quel fremito o in quella scarica di timore che è immanente all’atto traduttivo e lo sostanzia.

Eppure, nel Convivio Dante scrive, con un’autorevolezza alla quale ancor oggi è difficile resistere, “…nulla cosa per legame musaico armonizzata si può de la sua loquela in altra trasmutare senza rompere tutta sua dolcezza e armonia.” In altri termini, lasciate ogni speranza, la traduzione (letteraria) è praticamente impossibile. Sarà vero? Certo, noi traduttori trascorriamo le nostre industri esistenze cercando in tutti i modi di dimostrare che aveva torto, di dargli sulla voce, di sconfessarlo. A volte registriamo anche qualche (parziale) successo, che ci fa credere di essere sulla buona strada. Poi però ci guardiamo indietro, ripercorriamo con la mente i nostri errori, le sviste, le soluzioni inadeguate, e siamo costretti a dirci: e se una volta tanto avessi taciuto, diavol d’un Dante?

Dicevo del momento in cui nella mente del traduttore scocca la scintilla provocata dal testo di partenza, senza però che si sia ancora pienamente formulata, nella sua mente prima ancora che sulla tastiera del computer o sulla pagina, l’equivalenza nella lingua d’arrivo. È in quell’istante, forse, che ci giochiamo a dadi la cosiddetta fedeltà al testo. La scintilla si tradurrà in parole, che sono poi il risultato della traduzione, ma è l’immagine che si crea prima delle parole a determinare la formulazione che sceglieremo, come pure le variabili che invece (più o meno saggiamente) scarteremo. Opteremo, infatti, per quella che più si avvicina all’immagine che ci ha attraversato la mente; non solo, ma quanto più saremo rigorosi in questa scelta, nella rivendicazione della visione che si è scatenata in noi, tanto più riusciremo a rendere devotamente il pensiero dell’autore. Con una fedeltà assoluta, se non altro, nei confronti delle suggestioni che il testo ha suscitato in noi.

S’impone a questo punto una domanda interlocutoria: c’è, in questo, più arte o più artigianato? Più creazione o più catalogazione? Siamo artisti o impiegati? La farò corta, anzi cortissima. La mia risposta è semplice: entrambe le cose, e ciascuno le interpreta a proprio modo e in misura variabile. Molto variabile, anche all’interno di uno stesso testo, il che nulla toglie però alla grandezza dell’impresa.

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