CRITICA LIBRI

Femicidio: 7 storie, una sola storia

Storie vere, crude, tratte dall’ordinaria follia di tutti i giorni. Sono 1.740 le donne che in Italia sono state, negli ultimi 10 anni, vittime di feminicidio. Le racconta, con la freddezza del cronista ed il calore della donna, Natascia Ronchetti, in un libro intenso, intitolato "Il rituale del femicidio" – scritto così e non feminicidio –, prestando in particolare attenzione a quel drammatico “dopo”.

Storie vere, crude, tratte dall’ordinaria follia di tutti i giorni. Sono 1.740 le donne che in Italia sono state, negli ultimi 10 anni, vittime di feminicidio. Le racconta, con la freddezza del cronista ed il calore della donna, Natascia Ronchetti, in un libro intenso, intitolato Il rituale del femicidio – scritto così e non feminicidio –, prestando in particolare attenzione a quel drammatico “dopo”.

«Dell’uomo vediamo solo piedi e gambe, fino alle ginocchia. Si muove sicuro, senza titubanze. La sua attenzione è rivolta a una bella rosa di campo», scrive Natascia Ronchetti nel libro Il rituale del femicidio, pubblicato da David and Matthaus.

E prosegue: «Le gira intorno veloce. Calza scarpe nere con i lacci, quando si china possiamo osservare le mani, le maniche della camicia appena arrotolate sugli avambracci. Un piccolo stelo sorregge la rosa insieme a due boccioli. Intorno c’è l’erba. Piccoli arbusti, altri germogli, quadrifogli, foglie secche. La distesa di verde, forse a perdita d’occhio, così come le api, i calabroni e i loro fastidiosi ronzii, nel silenzio, possiamo solo immaginarli. Forse siamo in un parco. Oppure quel pezzo di terra, sul quale siamo liberi di fantasticare, potrebbe essere un angolo di giardino davanti ad una casa con un piccolo portico, una villetta con le finestre spalancate per consentire alla brezza primaverile di spandersi in cucina, nella sala, nelle camere, di agitare leggermente le tende. Ma l’inquadratura ci consente di vedere solo il fiore, i pochi metri quadrati di manto erboso che lo circondano, l’uomo che gli gira intorno. Il passo è deciso, si muove come se osservasse un rituale. C’è persino premura, carezzevole affetto nei suoi gesti. Solo quando prende in mano i suoi attrezzi, vecchi e arrugginiti, comincia la danza macabra della morte. La sollecitudine si trasfigura, adesso è ossessione, accerchiamento. Nessun attimo di titubanza, nemmeno un leggero tremore delle dita manifesta ripensamenti, ribellioni dell’anima e della coscienza. Non un dubbio induce una pausa, interrompe lo scempio. L’uomo strappa gli arbusti, estirpa l’erba, scava smuove la terra, la percuote e sradica gli altri fiori. Intorno alla rosa bianca ora c’è solo terriccio marrone schiacciato, humus ormai privo di vita».

Natascia Ronchetti

Nelle parole di Natascia Ronchetti la rosa bianca, prima isolata dal resto del mondo, accarezzata, e poi calpestata come un’erbaccia cattiva, è una metafora che Alex, studente del liceo Golgi di Brescia, mette in scena in una rappresentazione teatrale di pochi agghiaccianti minuti che porta in giro per teatri, circoli letterari, musei, come reazione all’assassinio di Gloria Trematerra, 55 anni, sua insegnate di inglese, una di quelle rare docenti in grado di smuovere le emozioni e la coscienza e che ti restano nel cuore per sempre, che solo pochi anni prima aveva regalato ai suoi maturandi una lettera di congedo bella e commovente pubblicata dopo la morte da tutti i giornali.

L a rosa bianca di Gloria ma anche quella di Marinella, Giulia, Rosi, Carmela, Vanessa, Stefania. Il rituale è identico, almeno nelle intenzioni del giardiniere. Sette donne, sette persone con affetti, passioni, amici, familiari, divenute oggetto di ossessioni, gelosia, possesso e infine casi di cronaca nera. Sette storie di feminicidi che dalla piccola provincia della pianura padana hanno ferito tutta la penisola fino a giungere alla periferia di Palermo, senza distinzione di classi sociali, estrazione, età, tipo di relazione affettiva con gli assassini. La più giovane – Carmela, studentessa – ha appena 17 anni e non conosce nemmeno il suo carnefice, Samuele Caruso, con cui la sorella Elisa, vittima predestinata, aveva avuto un breve flirt finito nel nulla, e che la pugnala per sbaglio o forse per eliminare un testimone, quando con la sorella varca il portone di casa; la più grande – Gloria, insegnante di inglese – di anni ne ha 55 anni e viene uccisa dal marito dopo un lungo matrimonio segnato da violenze e maltrattamenti ai quali aveva tentato di sottrarsi rifugiandosi con la figlia sedicenne in una casa protetta.

Marinella, 45 anni, buddista, amante degli animali e della musica, commessa in una profumeria di Zola Predosa – cittadina della cinta bolognese che nel 2015, nel giorno della festa della donna, le ha intitolato una via e nel parco cittadino un cippo fatto con un paio di scarpe rosse protette da una grata – viene strangolata da un uomo agli arresti domiciliari, conosciuto per caso in paese. Lei vede nel loro rapporto una semplice amicizia, lui vuole di più e non solo, nutre nei suoi confronti una gelosia morbosa. Dice di amarla e, al suo rifiuto, la ferisce con il coltello al seno ed a una guancia, poi la strangola con un foulard e, prima di suicidarsi, allestisce un grottesco “set bondage”, fatto di cinghie e legature e cinge la vita di Marinella con una cintura borchiata per simulare l’epilogo di un rapporto sessuale estremo finito in tragedia. Nel biglietto che lascia prima di usare il coltello contro se stesso scrive: «A lei piacciono tanto i giochini erotici e purtroppo agitandosi tanto è successa la disgrazia. Anche io non ho voluto più vivere».

In paese i pettegolezzi, le maldicenze, morbosità, lo scandalo infangano la memoria della vittima e, prima di essere spazzati via dagli esiti della autopsia, si mescolano allo strazio dei familiari, inasprendolo .

Ed è qui nel dolore dei familiari, delle madri, dei padri, delle sorelle, dei fratelli, degli amici, nel dolore di chi resta, nel vuoto, nelle domande, nei rimorsi, nel silenzio dell’assenza, che ci porta Natascia Ronchetti, con la sua scrittura colta e precisa, intensa e commovente.

Ci porta nel dopo di Lea Odorici, operaia, settantaquattro anni: «Lea era la zia di Marinella, la sorella di suo padre. Mostra le fotografie della nipote, bionda occhi azzurri, capelli lunghi. Era bella. (….)».

Lea dice che ci sono buchi che non si riempiono più. Sono come voragini senza fondo, bocche di vulcano, ferite che non possono cicatrizzarsi. «È il modo in cui è morta che mi tormenta. Si può morire in un incidente stradale, per una malattia. E allora soffri, certo, ma alla fine riesci a fartene una ragione, perché questa è la vita. Ma una morte così non riesci ad accettarla, non riesci a giustificarla. L’elaborazione di un lutto è impossibile».

Nel dopo di Orazio Garattoni, agente della polizia stradale, una vita in divisa: «Stefania aveva vent’anni. Volto paffuto, capelli scuri, frangetta. Sorrideva nelle foto, con quel sorriso – simile a quello di tanti coetanei – che sembra simboleggiare visioni profetiche».

Viene uccisa da Luca, il suo ragazzino di sedici anni, accoltellata davanti alla scuola che frequentava, per un sms da lei non letto, interpretato come il rifiuto definitivo. Qui davanti alla scuola si ferma la vita del padre Orazio, della madre Francesca degli altri tre figli, orfani di una sorella adottata quando aveva appena 43 giorni, o meglio va avanti ma per loro «l’elaborazione del lutto è diventata un faticoso susseguirsi di tanti piccoli atti di audacia».

Ed ancora in quello di Isabella, quarantasei anni, troppi ancora da affrontare. Isabella, mamma di Vanessa, 20 anni, uccisa dal marito per gelosia, ogni mattina al risveglio ha un primo pensiero per lei «che non mangia più, non beve più, non festeggia più» e subito dopo uno per il genero che l’ha uccisa, chiuso in carcere, «ma respira, gioca a calcetto». Vive.

A riflettori spenti, quando il clamore sui giornali e televisioni è sopito, quando pagine e pagine colme di particolari e dettagli, spesso intenzionalmente morbosi, quando le polemiche sulla «indifferenza, lentezza e ottusità che hanno reso la burocrazia corresponsabile del delitto» sono dimenticate, l’autrice, con la delicatezza di chi sente nel profondo le emozioni altrui e la perizia di chi ha seguito per anni, da cronista giudiziaria, grandi processi – tra i tanti, quello che ha portato alla condanna dei poliziotti della Uno bianca – è andata alla ricerca delle famiglie travolte dal dramma infinito che li accompagna.

Li ha avvicinati, ha parlato con loro e ha scritto del loro “dopo”. Delle loro vite in bilico tra il naturale dolore dell’assenza, il dubbio ed i rimpianti per i segnali forse non compresi o non comprensibili, l’odio verso gli assassini, in molti casi accolti in casa per anni con affetto, e la rabbia impotente per una legge che non li sostiene come potrebbe e avrebbe il dovere di fare.

Scrive delle priorità di quel “dopo”, tra le quali il futuro dei figli delle vittime, di fatto orfani di entrambi i genitori, che, non essendo spesso i condannati in grado di adempiere alle condanne di risarcimento del tribunali, dovrebbero essere sostenuti dallo Stato che invece ancora, qui in Italia almeno, non ha istituito un “Fondo per le vittime e gli orfani del feminicidio” come previsto da diverse direttive europee.

Un libro intenso che si assume l’onere importante di portare in superficie la sofferenza di migliaia di persone. Nell’ultimo decennio solo nel nostro Paese sono state 1.740 le donne vittime di feminicidio. Millesettecentoquaranta.

Natascia Ronchetti, Il rituale del femicidio, David and Matthaus, pp. 122, ISBN: 978-88-6984-095-1, € 12,90

 

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