CRITICA MOSTRE

Guardare Venezia dalla parte delle radici

Novembre a Venezia: al Magazzino Gallery di Palazzo Contarini Polignac, affacciato sul Canal Grande accanto al Ponte dell’Accademia, si è appena inaugurata la mostra di Inés de Borbón Acquamarina, a cura di Roberta Semeraro, con il patrocinio dell’Instituto Cervantes di Milano, tutta dedicata ai colori delle maree veneziane e alle bricole (quei pali di legno legati fra loro che costellano la laguna, indicando le rotte ai naviganti).

Nel ricordo dell’Acqua Granda del 1966, mentre ancora si contano i danni provocati dall’ultima, straordinaria onda dello scorso 29 ottobre, non ci si può non stupire ora del placarsi trasparente – sulle tele e nel Canale – dell’umor liquido della città. Inés de Borbón non è veneziana, ma spagnola: trasferita a Roma nel 2001, è giunta alla pittura con una volontà ferma e un approccio sensibile al mondo naturale, descritto nelle sfumature dei giardini, soprattutto nell’esplosione floreale di un Mediterraneo emotivo. Eppure pochi artisti hanno saputo coniugare, con altrettanta precisione, il colore della laguna con l’essenza vetrosa delle sue origini; un bosco rovesciato su cui si cammina nei secoli, colto nella sua specificità materica; acqua solida, la bricola prima che diventi tale, ed è ancora albero, un faggio immerso nel salso.

Lo spunto della radice, del nucleo originario fa di queste tele di Inés molto più di un’efficace prova estetica: l’artista ha compreso l’epifania felice dell’impossibile, ciò che rende minerale l’acqua e ghiaccia la laguna quando soffia la bora, o increspa le superfici di onde scalfite, quasi incisioni nel legno dei tronchi. È il miracolo di una città che appare sospesa, e invece è saldamente infissa nel fondale, da sempre resiliente: palo fa palù (“un palo crea palude”), si dice da queste parti, un universo di pali sotto edifici, calli e fondamenta.  Difficile rendere tutto questo nello spazio della tela, con quell’acrilico spugnato e ripassato in infinite velature, liquide come l’acquerello che Inés predilige. Altrettanto difficile ricreare la trasparenza della laguna aperta, certe tonalità nordiche che la stagione fa già intuire: «La mia idea per questa esposizione – commenta la pittrice – è armonizzare il “perdersi” nell’emotività dei toni verde acquamarina e, allo stesso tempo, attraverso la presenza concreta e tangibile della bricola, eludere qualsiasi smarrimento nella fluidità del colore».

Inés de Borbón non sta ritraendo ciò che vede, o almeno non solo (anche se sarebbe comunque opera pregevole). Inés, in questi lavori, è laguna nelle mani che compiono l’impresa, e l’idea di Venezia – il nonsense affascinante di un habitat in equilibrio precario, capace tuttavia di creare sostanza dalla propria stessa fragilità – è connaturata concettualmente al suo agire. « … dopo aver ricreato il paesaggio reale suscitandone la viva sensazione, Borbón prosegue il suo meta-viaggio nella laguna trasfigurandola – scrive Semeraro nel saggio critico – Destruttura così la bricola, dividendola in più sezioni di diverse forme e dimensioni, trasformandola da elemento statico in elemento dinamico e introducendo nella sua pittura l’idea del tempo, quindi del divenire».

L’isola di senso creata a Palazzo Contarini Polignac, fino al 20 novembre, nell’essenziale cornice di un fontego veneziano, in totale coerenza di messaggio, mostra con occhi nuovi, orgogliosamente ingenui una via possibile: quella del rispetto per i luoghi, della comprensione empatica di ciò che è necessario alla vita, non ultimo, della meraviglia.

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