CRITICA MOSTRE

I semi di Brian Eno

A quarant’anni dall’ultima personale a Venezia, Brian Eno torna in laguna con Ambient Paintings alla Galleria MichelaRizzo, alla Giudecca, fino al 24 novembre 2018. Uno spettacolo visuale (e musicale) da non perdere, legato alla dimensione del tempo nell’opera d’arte, all’intervento del caso e alla funzione dell’umano, coniugati nelle loro quasi infinite sfaccettature. I lavori di Brian Eno, LightboxesLenticulars, Etchings e una versione a quattro schermi del celeberrimo 77 Million Paintings, non smentiscono le aspettative di chi ha conosciuto l’artista per l’ideazione, la produzione o la realizzazione di capolavori sonori, dai Roxy Music a David Bowie, dai Talkings Heads agli U2. Nelle installazioni veneziane s’intuisce una malinconia fondante, una solitudine abitata dalle variazioni della luce,  performance sempre aperta al dubbio, alla rarefazione delle cose, al movimento anche impercettibile. Sono spazio, le opere di Eno, prima ancora che forma interpretativa. Nulla che tenti d’ingabbiare significati reconditi o, peggio ancora, di spiegarli.

La neutralizzazione appartiene al percorso dell’artista, già dalla sua attività di compositore: è lui – Brian Peter George St. John le Baptiste del la Salle Eno, nato a Woodbridge, Gran Bretagna, nel maggio 1948 – ad essersi sempre definito un “non musicista”. Negli anni Sessanta, lasciato il convento cattolico dove ha ricevuto l’educazione media, Eno studia arti visive a Ipswich e musica sperimentale a Winchester. Inventa persino una macchina sonora ad acqua piovana ed incide un brano per percussione di lampada metallica: lo racconta nel libro manifesto Music For Non-musicians, in cui teorizza appunto la figura del “non musicista” incompetente dal punto di vista tecnico, ma ricco di creatività. Il suo è un concetto di musica che trascende la semplice esecuzione e propone una concezione multimediale ante litteram. Si entra così in un territorio in cui vengono meno i punti di riferimento: 77Million Paintings, album video edito e portato al pubblico per la prima volta nel 2006, costituisce un’autentica svolta nella fruizione dell’opera, audio o video che si voglia intendere, da parte del pubblico. L’idea fondamentale che la sottende consiste in un software che combina fra loro numerose campionature (sample) musicali e circa trecento immagini astratte casuali utilizzate nelle installazioni di Brian Eno. Come suggerisce il titolo, è possibile ottenere settantasette milioni di combinazioni: ciò assicura che, verosimilmente, non verrà mai proposto due volte lo stesso risultato. Le sequenze visive offerte dal software cambiano gradualmente e sono accompagnate dal tappeto sonoro creato dall’artista: «Quello che faccio quando lavoro generativamente è  produrre semi – commenta Eno – che in seguito, nel caso di 77 Million Paintings, pianto nel computer. Poi, i semi crescono, e divengono tutti i tipi di fiori che esso può concepire». Nata per riempire lo spazio lasciato in casa da un televisore che non trasmetteva più, l’opera era stata originariamente pensata per la vendita come programma per il computer, proprio per generare immagini combinatorie sullo schermo. Come scrive l’artista: «abbiamo scannerizzato tutte le diapositive e diviso le scansioni in quattro banche; poi avevamo un software che selezionava una diapositiva a caso da una banca, la dissolveva fino alla massima luminosità e poi la dissolveva di nuovo … e il processo veniva applicato a ciascuna banca, identico al modo in cui la musica stava funzionando».

Nel suo coniugare il dinamismo della musica con l’energia temporale della pittura, il lavoro di Brian Eno – alla Galleria MichelaRizzo – viene posto in dialogo con Blue Depht (1961), opera del maestro del Bauhaus Josef Albers e con il grande Angolare ambiguo, opera del 2016 di Riccardo Guarneri, esposta alla 57° Mostra Internazionale d’Arte, La Biennale di Venezia del 2017. Fattore unificante fra i tre autori, soprattutto, sembra essere il rapporto tra luce e materia, e fra materia percettiva e suggestione cromatica, si tratti dell’iconica versione di Albers, nella sua fascinazione per il quadrato, o della rarefazione aerea di Guarneri. Eno, in questa mostra “incoraggia le persone a rimanere in un posto per un po’ “: la convergenza di media diversi è un’ulteriore chiave per leggere l’opera di questo artista, noto come uno dei principali innovatori della pittura generativa. Dalla fine degli anni Settanta, Brian Eno propone i suoi lavori da Tokyo a Città del Capo, da Rio de Janeiro a New York, Londra, Madrid e ora a Venezia. Un punto fermo rimane, tuttavia, l’attenzione al fattore luminoso: nelle sale della Galleria veneziana, situata nell’ex Birreria della Giudecca, sono esposti infatti anche una serie di Lenticulars: le opere utilizzano una tecnologia particolare per cui un materiale “lenticolare” di supporto viene usato per ottenere immagini che diano l’illusione della profondità o cambino quando l’immagine stessa venga osservata da diversi angoli visuali. Si fa ricorso alle proprietà di rifrazione o riflessione della luce quando questa attraversa un materiale plastico zigrinato; è il supporto, quindi, a dare movimento a ciò che altrimenti sarebbe riconosciuto come forma statica astratta: «Ho iniziato a giocare con la luce ,come mezzo, all’incirca nello stesso periodo in cui ho iniziato a suonare, quando ero adolescente – scrive Eno –Quando ripenso a quello che ho fatto negli anni successivi, mi sembra di aver cercato di rallentare la musica, cosicché dipingere e animare i dipinti diventasse più simile … nella speranza che le due attività si incontrassero e si fondessero nel mezzo». Nella stessa mostra, si può ammirare anche una serie di Etchings a colori: le stampe – immagini singole e fisse – si collocano in contrasto con Lenticulars. Nessun suono e nessun movimento; solo colore e silenzio.

L’installazione più affascinante, tuttavia, è ospitata al piano superiore: Lightboxes in una camera oscura, ognuna delle quali si articola in un’infinita, lenta serie cromatica autogenerata, per cui sono state scelte luci a LED intrecciate. Nel cuore delle forme geometriche, s’intuisce un nucleo pulsante che la musica avvolge e sostiene. Apparentemente, l’opera non sembra avere altra finalità che quel battito leggero, quella sottile variazione; anche il tempo si pone in una dimensione straniante, dilatata: «Se un dipinto è appeso ad un muro, non ci sembra, senza prestarci attenzione, che manchi qualcosa. Però, con musica e video – ha commentato l’artista – abbiamo ancora l’aspettativa di una sorta di dramma». L’attesa di qualcosa che non c’è ancora, il desiderio di cogliere quanto possa esistere – e resistere – nell’andare: al di là della modernità e dell’eleganza delle opere visuali di Brian Eno, a catturare è la loro dimensione umana. Anche così, per vie care alle sue strategie oblique, secondo istanze aleatorie, incorruttibili, fioriscono i suoi semi.

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