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Ikonda 1: L’insegnamento della donna scricciolo

Prima tappa di un'esperienza trascorsa a Ikonda in Tanzania in un ospedale dove c'è molto da imparare. L'ha fatta una socia di TESSERE impegnata in un progetto di aiuto medico promosso dal Comitato Collaborazione Medica (CCM), una Ong fondata nel 1968 da un gruppo di medici torinesi impegnati a garantire il diritto alla salute e l'accesso alle cure alle persone più vulnerabili nei paesi più poveri. Oltre che in Tanzania è presente in Burundi, Etiopia, Kenya, Somalia, Sud Sudan e Uganda.

Prima tappa di un’esperienza trascorsa a Ikonda in Tanzania in un ospedale dove c’è molto da imparare. L’ha fatta una socia di TESSERE impegnata in un progetto di aiuto medico promosso dal Comitato Collaborazione Medica (CCM), una Ong fondata nel 1968 da un gruppo di medici torinesi impegnati a garantire il diritto alla salute e l’accesso alle cure  alle persone più vulnerabili nei paesi più poveri. Oltre che in Tanzania è presente in Burundi, Etiopia, Kenya, Somalia, Sud Sudan e Uganda.

BARBARA GREPPI

Siamo sopra ai 2.000 metri, in Africa Subsahariana, Tanzania, in un complesso ospedaliero, nel mezzo del nulla: qualche “villaggio” qua e là, la città più vicina è a oltre 4 ore di fuoristrada, e bisogna anche avere fortuna.

In genere, luoghi così particolari hanno un impatto immediato e forte, che poi prende forma e consistenza; in altre parole, shock e ambientamento più o meno veloce.

Ikonda no: mi sento sospesa nel tempo e nello spazio, nonostante la barriera linguistica (il personale parla inglese, i malati, con rare eccezioni, swahili, lingua gentile all’ascolto, ma a me purtroppo sconosciuta), come se fossi sempre e solo stata qui.

Sarà la qualità delle persone che mi ha accolto, o il ritmo di queste giornate, apparentemente sempre uguali, in realtà rese variegate e sempre diverse da quello che affrontiamo in ospedale, dove partecipo alle attività del reparto “Uomini”: 13 stanze a 3 letti, più la “TV area”, con altri 8 letti, più quelli in corridoio, i cosiddetti “out”.

Oltre all’assistenza, ci facciamo carico anche della diagnostica ecografica. I malati arrivano da tutta la Tanzania, attirati dalla qualità riconosciuta dei servizi. Arrivano in terrificanti bus, che ogni giorno si inerpicano fin quassù carichi di un’umanità stremata, malati e parenti, stracarichi di fardelli e di quanto gli servirà per sopravvivere qui.

Padre Sandro, anima e instancabile gestore del complesso, ha messo a disposizione degli accompagnatori spazi attrezzati, in cui possono provvedere a pasti e quant’altro. Sì, perché qui sono i familiari a pensare all’alimentazione e all’accudimento dei propri malati. Gli infermieri si occupano di terapie, prelievi, rilievi parametrici e logistiche varie, ma sono i parenti a occuparsi dell’igiene e del cibo dei malati.

Arriva in reparto un settantenne in coma con emiplegia destra accompagnato da moglie e figlio. La TAC a cui lo sottoponiamo dimostra che si tratta di un un ictus emorragico esteso. Vengono da 500 km a nord, probabilmente sono due, tre giorni di viaggio in condizioni che non cerco nemmeno di descrivere.

Abbiamo la fantasia per raffigurarci un corpo devastato trasportato da una anziana scricciolo e da un figlio disperato, dentro e fuori bus traballanti e stipati, prima nel caldo umido della piana, poi via via nel contrasto climatico della montagna? La risposta è no, non riusciamo a immaginarlo.

Arrivano, il malato approda infine in un letto, la moglie scricciolo sempre accanto, gentile e mite. Cosa si aspettano, cosa sperano? Io credo nulla, penso cioè che semplicemente stiano facendo il massimo che possono. Se siamo in grado di fare qualcosa, bene; altrimenti, pazienza. E in questo caso, non siamo in grado di fare qualcosa, né qui né altrove.

Ascoltano attenti, moglie e figlio, acconsentono a pagare la TAC che è un esame caro e per molti pazienti inaccessibile, benché l’ospedale chieda solo il costo vivo. Acconsentono, anche se abbiamo chiaramente spiegato che l’esame potrebbe, come in effetti sarà, decretare un verdetto senza speranze.

Ieri, a sera inoltrata, abbiamo fatto un’ultima visita in corsia. Bisogna fare attenzione a non calpestare nessuno, perché spesso il parente di turno dorme sdraiato in terra, a fianco del proprio accudito. Non so perché, ma mi è sembrato importante scoprire che la moglie scricciolo aveva una poltrona e teneva il marito per mano.

Mentre scrivo, e mi rendo conto una volta di più che per ora riesco solo a condividere aneddoti, comincio a pensare che in questo episodio c’è un incredibile coacervo di emozioni: la vita e il suo contrario, una forza sovrannaturale e una debolezza assoluta. Sopportare così è pura resilienza, ma anche il totale anacronismo con il “mondo che può”. Si può colmare una simile distanza?

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