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Ikonda 6: Piccolo vocabolario per chi arriva al villaggio

Ultima tappa di un’esperienza trascorsa a Ikonda in Tanzania in un ospedale dove c’è molto da imparare. L’ha fatta una socia di TESSERE impegnata in un progetto di aiuto medico promosso dal Comitato Collaborazione Medica (CCM), una Ong fondata nel 1968 da un gruppo di medici torinesi impegnati a garantire il diritto alla salute e l’accesso alle cure alle persone più vulnerabili nei paesi più poveri. Oltre che in Tanzania è presente in Burundi, Etiopia, Kenya, Somalia, Sud Sudan e Uganda.

BARBARA GREPPI

Un piccolo vocabolario utile per chi arriva al villaggio di Ikonda.

Asante – La esse va accentuata senza però raddoppiarla. Vuol dire «grazie» in swahili; per cambiare la quantità del ringraziamento, aggiungere sana (molto), oppure, ma ci vuole arte, usare il tono e la durata con cui si enuncia: più è lungo e più canta, tanto più è importante il ringraziamento.

Bagia – Si legge baghia. Trattasi di deliziose palline fritte di un impasto di farina normale e farina di piselli. Vedi oltre, non per la ricetta, ma per leggere tutta la storia.

Barābarā – In elenco solo perché assomiglia al mio nome. Vuol dire «strada»; da quando l’ho capito, cerco di imbrogliare nuove conoscenze sostenendo di chiamarmi quasi strada. Niente, non ci casca nessuno, azzeccano subito tutti la fonetica giusta di Bārbara. Mannaggia!

Cha – Leggere cià e non confondere con chai («tè», la bevanda). Esattamente non lo so, ma mi sono fatta l’idea che trasformi in verbo una parola: cibo diventa mangiare, per esempio.

Choo – Leggere ciò. Vuol dire «cacca» (beh, «feci» mi sembra decisamente non in stile) e, per “contiguità”, «cesso». In genere, conviene evitare accuratamente la direzione cui la sillaba punta.

Cucu – Da non confondere con l’italiano «cucù»; vuol dire «pollo».

Diu – «Sì». Semplice, semplice.

Ema – Respiro, respirare. Capisco non sembri una parola di prima necessità, ma per un dottore è fondamentale! Provate ad auscultare (va bene, ascoltare con il fonendoscopio, l’aggeggio con due auricolari, un tubo e una specie di tazzina, in genere odiosamente gelida) i polmoni di un essere che respira superficialmente: 118 immediato! Quindi, «ema», cari miei. E, a conti fatti, è più fondamentale di quel che sembra.

Falafel – Non c’entra niente, salvo che ho spiegato a Grazia, la chirurga pediatrica, cosa sono e come si fanno. Grazia, che ha una visione pescarocentrica (suo borgo natio) della gastronomia, ha prontamente deciso che all’origine anche i falafel, come i belgi gauffres, scippati alle mogli dei minatori di Marcinelles (peraltro insieme alla vita dei suddetti consorti), sono di origine abruzzese. Quindi, falafelli e ferratelle, legittimo nome dei gauffres.

Giasa – In realtà, non sono affatto sicura di aver capito davvero il significato di questo fondamentale verbo. So però che, quando vaghi sulla pancia del malato con una sonda ecografica alla disperata ricerca dei reni, l’urlo «giasa tumbo» (andare alla «t» per la traduzione di tumbo; ah, l’urlo deve essere prodotto dal medico, non dal paziente) spesso risolve, facendo magicamente apparire i succitati organi. Se non viene rapidamente antagonizzato dal contrordine «regheisa (tumbo)» o «negheisa (tumbo)», alla magica apparizione fa però rapidamente seguito uno stato asfittico ingravescente (del paziente, non del medico). Se avete la costanza di arrivare fino alla «r» di «regheisa», troverete una spiegazione epistemologica più o meno sensata.

Jambo – «Salve!» Un allegro saluto tra pari. Anche l’inizio di un tormentone rock keniota, popolarissimo anche in Tanzania.

Habari – «Notizie?» Insomma, è l’abracadabra delle relazioni, il nostro «come va?». Invariabilmente, la risposta è «safi», più raramente «visuli» (vedere rispettivamente «s» e «v», anche se il significato è intuibile). «Come va il viaggio?» («Notizie viaggio?») «Habari a safari?»

Hakuna – «No». Trovo estenuante usare un trisillabe per un no.

I – Non ne ho carpita neanche una, di parole con la «i», salvo un sacco di nomi propri. In compenso, tantissime con la K, cui passo subito.

Kidogu – La «d» va pronunciata rollando la lingua sul palato, esponendosi al rischio di sputacchiare (pazienza, altrimenti non ci si capisce). Vuol dire «poco». È una parola molto carina, ma da interpretare al contrario se chiesta in relazione al dolore. Qualunque ne sia il motivo (secondo me, il desiderio di non deludere il guaritore bianco, ansioso di alleviare l’orrido sintomo), è spesso un pericoloso understatement, da intercettare prima di complicanze drammatiche.

Koa – Tosse. Ce l’hanno praticamente tutti, e quelli che arrivano senza la sviluppano poco dopo. Chiederne la presenza è quindi inutile (comunque, si sente. Intendo la tosse, non la risposta). Cercare di approfondire scatena, oltre ad accessi dimostrativi poco gradevoli, memorie e cronicità incomprensibili. Radiografia del torace!

Karibu – Non identifica un volatile, come pensavo io. È il nostro «benvenuto s’accomodi», spesso rinforzato da «sana» (già spiegato).

Kula – Cibo . «Na kula», quindi, non è un’offesa, ma il modo di chiedere all’interlocutore se gode di un sano appetito. «Cha kula», se avete letto con attenzione, il modo per chiedere all’interlocutore se mangia.

Lala – Questo delizioso bisillabo va accompagnato da un gesto sfarfallante di braccio e mano. Sta per «rilassati, sdraiati».

Leo – Non di tratta della belva, vuol dire banalmente «oggi» (domani si dice «keshu», non l’ho detto per esigenze di sintesi).

Macho – Nessuna attinenza con la virilità. Vuol dire «occhio», e quindi anche «oculista» (seguito da «clinic»).

Mama – In Tanzania, una donna perde il proprio nome nel momento in cui ha un figlio. Da quel momento in poi, si chiama «mama Xxx», dove Xxx è il nome del figlio. Non ho approfondito cosa succede in caso di primogenita femmina, la risposta è senz’altro orribile a prescindere.

Mapela – Frutto delicato, si mangia sia crudo che cotto. Temo però che sia il nome basco, lingua d’origine di chi me l’ha fatto assaggiare (Padre Zubia).

Matata – Tradurrei con problema, pensiero. Quindi: «hakuna matata» = «no problem». Si può anche cantare, il vecchio Walt insegna.

Na – In mancanza di un’infarinatura grammaticale (non so se in Swahili esistono i pronomi), me lo traduco con «tu». Esempio: «na koa?», ossia «tu tosse?».

Negheisa – Forse è «regheisa»; nel dubbio, andate alla «r».

O – Cilecca, nada, vale quanto detto per la «i». Posso però sempre rifilarvi un «ospitaly», che non perdo tempo a tradurre. Oppure «OPD», che in gergo ikondese vuol dire «out patient dispensary» (ambulatorio).

Pilipili – Il peperoncino di Padre Zubia. Anche in questo caso, potrebbe essere Basco, invece di Swahili.

Pika – Vomito. Se siete stati attenti, saprete che con «na pika» state chiedendo al prossimo se ha (avuto; sarete d’accordo sull’inutilità di chiederlo durante l’atto) episodi di vomito.

Q – Non saprei, magari qualcuna delle parole alla «K» in realtà meritano una «Q».

Regheisa – Rilassare, rilassa.

Safi – «Bene». Risposta scontata, anche con 41° di febbre, brividi, affanno crescente e la testa che scoppia: «safi».

Salam – Ma anche «salama», forse la declinazione al femminile (Salama Maria è l’inizio dell’evento Maria). Saluto educato, mutuato dall’arabo, di cui del resto lo Swahili è figlio.

Shikamo – Saluto formale, da riservare ai potenti. Una sorta di «al vostro servizio». Obbligatorio per rivolgersi ai bianchi nel periodo coloniale.

Subiri – Per favore, un attimino, abbia pazienza.

Topitopi – Non so come si chiama in italiano (o in inglese o in francese). So però che è un frutto semplicemente squisito. Però «topitopi» è dialetto ikondese, non Swahili.

Tumbo – Vuol dire pancia, non l’avevate capito?

Ugali – Fagioli, borlotti perlopiù.

Ugi – Polenta o porridge di mais; più liquido è, più povero è il paziente. In casi estremi, saccheggiare la farmacia per rubare qualche omogeneizzato, da somministrare solo dopo averne diluito odore e sapore nel succitato ugi, altrimenti verrà irrimediabilmente vomitato, vanificando la razzia.

Uma – Dolore. Sofferenza fisica. Un omaggio a chi di voi sa chiedere «hai male?». Due a chi formula «ti fa male la pancia».

Visuli – Sinonimo di «safi». Sempre e comunque, chi è in grado di parlare sta invariabilmente bene.

Zanzibar – L’isola delle spezie, dalla cui unione con il Tanganika nasce la Tanzania. Oltre 140 etnie…

I riti laici di Ikonda

Rito del giovedì – «Bagia bumpa to bumpa» è il rito che si consuma il giovedì, almeno nel reparto “Uomini”. Servono: un paio di migliaia di scellini (meno di 1€), un procacciatore di bagia (raccomando Saididi, uno degli infermieri) e ricordarsene entro le ore 11. All’ora x (prima delle 11, ma non troppo), il procacciatore sparisce con gli scellini in cerca dell’unica cuoca abilitata a confezionare e vendere le bagia. Torna invariabilmente dopo sette minuti esatti, munito di sacchetto di carta assorbente pieno di bagia, reso clandestino e/o tenuto al caldo da un sacchetto di plastica nera. Convergenza del personale nello spogliatoio, dove il procacciatore attende. Inizia il «bumpa to bumpa». Ritornello di un’infernale filastrocca rock (entrato nel lessico nazionale), «bumpa to bumpa» origina dal traffico di Dar Es Salam, dove sono stati incautamente posti dei «bump» (è inglese, non Swahili; sono i dossi che obbligano a rallentare); provocano regolarmente inevitabili tamponamenti a catena («bumpa to bumpa»), scatenati dal primo che, deciso a non spaccare le sospensioni, inchioda all’ultimo momento. «Bumpa to bumpa» ha così arricchito il lessico giovanile (quindi di tutti, vista l’età media), per dire «una tira l’altra» (le nostre ciliegie, insomma). La degustazione della bagia è infatti incontenibile: si smette solo quando sono finite, altroché patatine!

Rito del venerdì – Il mio preferito. Siamo (io e il tutor) invitati a pranzo da Suor Mimmina, che ci accoglie nella sua bella cucina con delizie dell’orto e sapienze brindisinoparaguensotanzaniche. Minestroni densi e fumanti, piccole zucche al forno, pannocchie sulla brace, pisellini appena colti, lenticchie, patate dolci, frutti mai visti e squisiti placano stomaci e pance, anche quelle riluttanti come le mie; piccoli fatti quotidiani e chiacchiere placano i tormenti e i dubbi che il lavorare qui inevitabilmente scatena.

6 Fine

Ikonda 1: L’insegnamento della donna scricciolo

Ikonda 2: Quando una pisciata ha del miracoloso

Ikonda 3: Serpenti, morsi di donna e… iene

Ikonda 4:  Quel figlio gentile che accompagna il padre a morire

Ikonda 5: «Ciao Mpipi». Ecco la schiera di bambini in Tanzania

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