Il libro Potere e capitalismo di Stefano Berni è una riflessione filosofica sul potere, o meglio una riflessione su una delle forme, il capitalismo, che il potere può assumere. È il potere che sta prima e produce il capitalismo, non l’inverso e si tratta di capire come il potere si declini nel capitalismo.
Al tema del potere Berni ha dedicato un’incessante meditazione, a partire dal suo studio su Foucault, poi nei suoi saggi filosofici e anche nei suoi scritti letterari, soprattutto Creonte e Pazza morale. Come se evidentemente avvertisse che in questo tema sta la chiave per decifrare le vicende umane.
Qui, in Potere e capitalismo, la riflessione sembra muoversi in tre direzioni:
- volgendo lo sguardo al passato, alla ricerca di quale sia il principio, la causa, l’essenza, il senso del potere;
- volgendo lo sguardo al presente, interrogandosi sulle forme nelle quali si manifesta il potere nella società contemporanea;
- volgendolo infine al futuro, per suggerire delle alternative a qualcosa che non va, che deve cambiare.
La riflessione di Berni sul potere, oltre che totale – volta cioè al passato, al presente e al futuro – è una riflessione critica, come rivela lo stesso sottotitolo del libro (Filosofie critiche del politico) e i titoli di ciascuno dei suoi capitoli, ognuno dei quali comprende la parola critica. La filosofia infatti dev’essere critica, una filosofia del sospetto.
Dunque il potere può essere criticato, perché ciò che in esso non va, deve cambiare, di più, può essere cambiato. Il mondo non è immutabile, non lo è il capitalismo, non lo è nemmeno il potere. Scrive Berni: «Non si deve accettare l’esistente come un dato incontrovertibile». La realtà è storica, muta. Anche il potere muta, possiamo cambiarlo. Si tratterà semmai poi di capire se, oltre che poterlo in parte cambiare, lo si possa anche superare del tutto.
Partiamo dalla prima direzione: qual è l’origine, il principio, la causa, l’essenza del potere? Qui la riflessione di Berni prende come punti di riferimento principali il pensiero di Schmitt e Foucault, dai quali nel complesso emerge l’idea che il potere sia uno e trino, cioè comprenda tre elementi: relazione, forza, resistenza. Il potere è una relazione, poniamo tra A e B, è forza, di A verso B, e infine è resistenza, di B verso A.
Ora per Schmitt il potere ha una radice antropologica, che lui definisce il politico,e si identifica in sostanza nella coppia di opposti amico-nemico. Il politico, cioè la coppia amico-nemico, è la radice naturale del potere. Dunque il potere è naturale: per natura siamo portati a identificarci nel nostro gruppo e a percepire l’altro, che appartiene a un gruppo diverso, come nemico. E quindi a non voler subire il suo potere ma a voler esercitare il nostro su di lui. C’è qui un pessimismo antropologico che ricorda Hobbes: l’uomo è per natura violento.
Ma il politico porta i membri dello stesso gruppo, per difendersi, ad unirsi dando vita allo stato, cioè alla politica. Dal politico nascono non solo il potere ma anche la politica e la sua manifestazione suprema, lo stato. E tuttavia lo stato, la politica, è proprio l’attività che ha il compito di frenare la violenza del politico incanalandolo in forme di coesistenza civili e pacifiche. Il politico genera sia la malattia, cioè la violenza, sia la medicina, cioè lo stato, unica soluzione, per Hobbes come per Schmitt, per mettere fine alla guerra. Se il politico è violenza, lo stato è ciò che deve contenerla, sia pure senza poterla estirpare, essendo essa naturale.
Ora mentre per Schmitt c’è un potere negativo, quello del politico in quanto violenza, e un potere positivo, quello dello stato in quanto rimedio alla violenza, per Foucault invece anche lo stato è violenza, ossia il potere è sempre negativo, il potere positivo non esiste. E mentre Schmitt svolge la sua riflessione sul potere centrandola appunto sullo stato, il macropotere per eccellenza, il potere massimamente visibile, Foucault invece ritiene intanto che lo stato non sia l’argine alla violenza ma produca esso stesso violenza, e poi individua la caratteristica principale del potere nel fatto che esso si è reso invisibile, è diventato un micropotere diffuso, pervasivo, capace di penetrare dovunque, senza un centro. Il potere ha una natura mimetica che lo rende inafferrabile e difficilmente definibile e s’insinua, ancor più che negli ambiti manifesti della politica e dell’economia, in quelli più nascosti della cultura, della coscienza, dell’inconscio. Il potere è dentro di noi. Il potere siamo noi e in noi soprattutto va scovato e gli va fatta resistenza. Non basta più conquistare il palazzo d’inverno. E analizzare il potere da questo punto di vista è anche il programma che Berni si propone nel suo libro.
Tuttavia sia per Schmitt che per Foucault, e qui c’è il loro principale punto di convergenza, il potere è il motore della storia. Questo lo si può constatare anche nel mondo contemporaneo. Tutto quanto si muove è mosso dal potere.
Siamo soliti definire il nostro tempo con la categoria della globalizzazione, ma la globalizzazione è il capitalismo che estende il suo potere al mondo intero. Analogamente il tema oggi centrale dell’immigrazione è il fenomeno con cui il Sud del mondo cerca disperatamente il potere di sopravvivere, e il fenomeno contrario del respingimento dei migranti è quello con cui il Nord esercita il suo potere contro un fenomeno che percepisce come minaccia. Il potere insomma è il grande regista degli avvenimenti del nostro tempo, si può dire che è l’essenza del nostro tempo.
E però, sia per Schmitt che per Foucault, il potere non è solo l’essenza del nostro tempo ma è la strada sulla quale cammina l’umanità da sempre, fin da quando, facendo una fantasia, di fronte a un primo bivio ha scelto la via del potere. Il potere è da sempre non l’oscuro ma l’evidente oggetto del desiderio. L’uomo è un animale che ama il potere.
Perché vuole tanto il potere? Aristotele diceva che tutto quello che si vuole lo si vuole per un fine ultimo che è la felicità. Dunque l’uomo vuole il potere perché ha la convinzione che il potere renda felici, questo dev’essere il senso di quella scelta che l’umanità deve aver fatto una volta, tanto tempo fa, davanti a quel primo bivio. E sarebbe interessante anche chiedersi quale sarebbe stata l’alternativa, quale altra via avrebbe potuto prendere l’uomo invece della via del potere.
Mi sembra che, a proposito di questa prima direzione del libro, volta a interrogarsi sulla natura e sull’essenza del potere, Berni faccia due osservazioni principali:
1) Non esiste una natura, un’essenza umana, né buona, con una antropologia positiva, né cattiva, con una antropologia negativa: «Non esiste una parte interiore di noi la cui essenza si presenta appena nati…Il soggetto si modifica sulla base della società in cui vive». L’uomo per natura non è né buono né cattivo perché non ha un’essenza già stabilita, non è nessuna delle due cose, è nulla, e così è aperto a ogni possibilità, ha una natura non scritta e perciò ambivalente e, come scrive Pico della Mirandola, può scegliere liberamente di elevarsi fino agli angeli o degradarsi fino ai bruti. Ambivalenza del resto riconosciuta sia da Schmitt che da Foucault. Scrive Berni: «Riconoscere che questa ambivalenza è costitutiva dell’essere umano è quello che questi autori ci hanno insegnato, un’oscillazione perpetua tra egoismo e simpatia, individualità e comunitarismo, libertà e potere».
2) L’impulso dell’uomo verso il potere non va rimosso. Se il potere è rimosso diventa, come tutto ciò che è rimosso, distruttivo. Il potere può essere gestito, evitandone gli esiti più letali, solo se lo riconosciamo, ne diventiamo coscienti, accogliamo la tendenza al potere che è in ognuno di noi, giacché solo così possiamo trasformarla. Come si fa a cambiare il potere? Il primo passo è riconoscerlo in noi, saper capire quando mettiamo in atto dinamiche di potere. Se non capiamo questo atteggiamento non possiamo cambiarlo, se invece lo capiamo allora possiamo modificarlo e può accadere come nelle fiabe, dove la bestia, in questo caso la bestia del potere, e il potere è davvero una brutta bestia, quando viene accettata si trasforma, e chissà potrebbe anche diventare un principe.
Per quanto riguarda poi la seconda direzione del libro, cioè la riflessione critica sulle forme nelle quali si manifesta il potere nella società contemporanea, Berni sottolinea soprattutto due punti.
1) La riduzione della politica all’economia. L’economia, che nel mondo moderno è l’economia capitalistica, ha sottomesso, annientato la politica: «Nella società contemporanea avviene la riduzione del piano politico a quello economico, estendendo il primato dell’economico fino a colonizzare l’ethos politico». Non è la politica, lo stato che dice all’economia cosa deve fare ma sono i grandi poteri economici che dicono cosa fare agli stati. Ma cos’è l’economia capitalistica? È in fondo la piena realizzazione della violenza del rapporto amico-nemico, la guerra di tutti contro tutti, la dimensione in cui vale la legge del più forte, la giungla realizzata, dove il pesce grosso mangia il pesce piccolo. Dunque l’economia capitalistica è la forma che nell’età moderna ha preso il politico nel senso di Schmitt. L’economia capitalistica è il politico mascherato da economico. Potere e capitalismo: in che modo il potere si declina nel capitalismo? Una risposta può essere questa: il capitalismo è il politico che nella forma dell’economico ha sbaragliato la politica, cioè gli stati, che avrebbero dovuto tenerlo sotto controllo. Contro la dittatura dell’economico quale forma che ha assunto il politico, cioè il conflitto amico nemico, Stefano rivendica invece proprio l’importanza della politica, come attività la cui potenzialità appartiene a tutti, ma che, con Protagora e contro Platone, deve essere coltivata e insegnata. E Berni propone una scuola, un’università, che insegni davvero a fare politica e formi una classe politica competente: «Occorre una formazione culturale che prepari un’elite capace frutto di una scelta democratica effettuata dai cittadini, ma anche di una selezione basata sul merito nell’arte della politica».
2) Un effetto decisivo del potere nella moderna società capitalistica è la persuasione che il lavoro sia l’essenza dell’uomo, l’uomo come animale laborans. L’etica calvinista e il capitalismo, come suggerisce Weber, congiurano a produrre questa convinzione utile a convincere l’uomo ad accettare il lavoro alienato proprio dell’economia capitalistica giustificato come voluto da Dio.
Berni vuol mettere in dubbio questa persuasione e mostrare l’alternativa, e qua comincia la terza direzione del libro, quella dei suggerimenti rivolti al futuro. Un’alternativa può essere cominciare a ripensare l’uomo, non in modo moderno, capitalistico, ma in modo antico, greco. Cioè l’uomo che non è pienamente uomo nel lavoro ma nel tempo libero dal lavoro, che i greci chiamavano skolèe i latini otium, tempo dedicato alla cura di sé, alla propria formazione ed arricchimento, al piacere e alla bellezza del pensiero, al godimento, attività assai più simili al gioco che al lavoro.
Mentre il lavoro è un’attività necessaria, faticosa, finalizzata ad altro, cioè alla sopravvivenza, il gioco è attività libera, piacevole e fine a se stessa: «Occorrerebbe ritornare all’otium… alla vita della mente… alla cura di sé». Bisogna cioè pensare l’uomo non tanto come animale laborans quanto come animale ludens. L’uomo che vive per lavorare diventa un bruto, non è più uomo, spende male, getta via la sua vita, l’unica che abbiamo. Berni suggerisce che l’uomo deve smettere di pensare di essere un lavoratore e cominciare a pensare di essere un uomo. Lavoro quindi sono, questa convinzione è un condizionamento del potere e uno dei maggiori ostacoli a un cambiamento.
Del resto oggi l’impiego delle macchine al posto dell’uomo nell’economia rende possibile ipotizzare una riduzione del lavoro, cioè del tempo di necessità, e una espansione del gioco, cioè del tempo di libertà, purché le macchine siano impiegate a un fine di liberazione e non di maggiore asservimento dell’uomo. Si tratta di opporre al dovere del lavoro il piacere del gioco, la gioia del gioco: per alcuni c’è un’affinità anche etimologica tra la parola gioco e la parola gioia.
E punto di riferimento è il corpo. La psiche è condizionata, infettata dalle false idee instillate dal potere, resa schiava da desideri droga, quelli che Epicuro classificava tra i desideri innaturali, che hanno la caratteristica di essere infiniti, quindi mai appagati, come la droga: «Viviamo in una società dei desideri ma non del piacere. Lo scollamento tra il proprio piacere e i desideri autoimposti, tra il desiderio e ciò che piace realmente al corpo. L’esito è la malattia del corpo».
La psiche mente, prima di tutto mentiamo a noi stessi, per esempio quando ci diciamo di aver bisogno sempre più di potere o ricchezza. Ma il corpo non mente, ci dice se sta bene o se sta male, se è sano o malato. E permette il godimento, il piacere, proprio perché ha il senso del limite. I bisogni del corpo sono naturali e la natura mette un limite. Se mangi troppo il corpo ti ferma, ti dice “non ho più fame”, e se continui a mangiare vuol dire che non ascolti più il corpo ma la mente che ti dice di mangiare ancora non perché hai fame ma per riempire un vuoto di altro tipo, magari un vuoto affettivo.
Il criterio primo della salute, di una vita sana, è l’ascolto del corpo. Si tratta di opporre ai falsi, coatti desideri della mente, che fanno ammalare e fanno star male il corpo, gli autentici, spontanei piaceri del corpo, che rendono sana e fanno star bene la mente.
Proprio il tema del limite è un punto decisivo. Carattere essenziale del potere, come del capitalismo, è l’assenza di un senso del limite, che i greci chiamavano ybrise ritenevano fosse fatalmente punita. Ma ciò che è sciolto da limiti è ab-solutus, assoluto. Il cuore segreto del potere è l’assolutismo. L’assolutismo è la vocazione più autentica del potere. Ogni potere aspira ad essere assoluto.
Ma allora, se il cuore segreto del potere è l’assolutismo, la medicina naturale alla malattia del potere è il relativismo. La proposta di Berni per resistere al potere è il relativismo.
Assolutismo significa appunto non accettazione del limite, che è ciò che ci distingue dall’altro, e quindi significa non riconoscimento, negazione, annientamento dell’altro, invece relativismo è accettazione del limite e quindi dell’altro, della sua differenza, ed è pertanto il superamento del politico nel senso di Schmitt: l’altro non è più il nemico da combattere, che mi toglie e mi impoverisce, ma il diverso da rispettare, che mi dà e mi arricchisce. Se il relativismo può sconfiggere il politico ciò significa che il politico non è una dimensione antropologicamente insuperabile. E giacchè il politico è per Schmitt la radice del potere nemmeno il potere lo è. Berni si distanzia, mi pare, dal pessimismo tragico,come lui lo definisce, sia di Schmitt che di Foucault, per i quali al fondo della storia c’è un potere intrascendibile.
E allora riassumerei così le proposte fondamentali che ci vengono dal libro di Berni per il presente e per il futuro nel nostro rapporto con il potere: che l’uomo riconosca la propria volontà di potere per tenerla sotto controllo; che sorvegli il potere nei suoi aspetti più sottili e pervasivi della vita quotidiana; che si ricordi di essere non un lavoratore ma un uomo perché la vita non è fatta per la fatica del lavoro ma per la gioia del gioco; che cerchi nell’ascolto del corpo e nel piacere del pensiero la guida verso una vita sana; che abbandoni la ybris dell’onnipotenza e ritrovi un senso del limite; che non subisca passivamente i condizionamenti del potere ma eserciti un’intelligenza critica; che sappia ritrovare il significato più alto e più nobile della politica come attività a servizio degli uomini per vivere bene insieme; che il filosofo sia esempio e testimonianza, vivendo filosoficamente e criticamente, di una vita possibile fuori dal potere e che l’uomo abbandoni ogni assolutismo e, sulla base di una visione adulta, non egocentrica della vita, faccia di un relativismo tollerante e accogliente il fondamento di una scelta diversa da quella del potere il quale, dopo aver prodotto Auschwitz, Hiroshima e Nagasaki, le massime tragedie della storia umana, minaccia oggi, con una catastrofe ecologica o nucleare o con migrazioni apocalittiche, di portarci verso il nulla. Siamo di fronte a un nuovo bivio, e scegliere stavolta una via diversa da quella del potere è il tema centrale sul quale si giocano il nostro destino e la nostra salvezza.