Forse i sobborghi del New Jersey, nella vacuità silenziosa di vialetti e giardini. Non la brulicante Manhattan dall’odorosa polisemia, quanto l’ordine seriale, il sogno della normalità che Philip Roth fa esplodere in American Pastoral. È su questo terreno apparentemente neutro (ma in realtà perturbante) che s’insinua l’Altro di Igor Skaletsky: non più l’ebreo ortodosso in pastrano di Eli il fanatico (da una raccolta giovanile rothiana), ma il bellissimo trans in perfetto stile Chanel, dal completo bicolore in maglia alle décolleté in tinta. Una fanciulla armata di vanga passeggia tra volatili di ogni specie, un’altra – in cady di seta – indossa un casco steampunk. La mostra di Igor Skaletsky Sogno e surreale, appena inaugurata al Museo Ebraico di Venezia, in collaborazione con la Comunità Ebraica di Venezia e Coopculture, in pieno Carnevale 2020 e destinata ad incrociare (il 9-10 marzo prossimi) la festa di Purim che – tradizionalmente – prevede il travestimento, è un’occasione rara ed intrigante per ragionare su tematiche identitarie, sul ruolo dell’inconscio nelle manifestazioni artistiche e sulla presenza – ingombrante, pervasiva – dell’Altro in noi.
L’artista, classe 1978, russo di origine ma emigrato in Israele, gioca con il grottesco che i suoi cortocircuiti paradigmatici (sé e altro da sé, memoria e incubo, tradizione e modernità massmediale) provocano nell’osservatore. Attraverso una maniera solida, capace, che assembla pittura e ampi lembi di collage, con tale maestria da rendere impossibile l’individuazione delle diverse textures, Skaletsky incarna un mistero irriducibile. L’angoscia è senza causa, ribadiva Lacan nel 1963, ma non senza oggetto, ed è un’angoscia che designa l’oggetto più profondo, l’Altro assoluto. Viene da pensare che, troppo spesso, si consideri l’arte con eccessiva confidenza, mentre andrebbe accostata con grande cautela, consci – per una volta – che l’incontro e il disvelamento del mistero ci possono trasformare.
In seno ad un esilio differente – che è migranza di modelli e di significati, anziché di luoghi – Skaletsky cela di continuo il senso dei suoi ritratti vertiginosi e formalmente perfetti. Le sue donne, i suoi gruppi familiari straniati e stranianti, sono allo stesso tempo uno schermo espositivo ed il palinsesto di un contemporaneo assimilato, con sfumature che vanno dal surrealismo ad un iperreale colmo di echi. Ciò che conta non è strettamente visibile, non sta neppure nello stacco tra icone diverse a livello spazio-temporale. Tuttavia, è lì che vibra la corda dell’inquietudine. Paul Di Filippo, autore nel 1995 di Steampunk Trilogy, immagina l’invasione del Massachusetts da parte di mostri lovecraftiani. Skaletsky, dal canto suo, rielabora tecnologie anacronistiche in ambientazioni d’epoca, riecheggia The Time Machine di H. G. Wells, meccanica d’automi, retro-futurismi su volti angelici, stilemi fashion trattati con competenza. Del resto, si dice che anche Kafka amasse le donne e le sfilate di moda. L’artista esorcizza la saturazione mediatica con l’arma del trasformismo; affronta la condizione postmoderna non solo come spaesamento, ma anche come opportunità espressiva. Ciò che ne risulta è un ibrido che affascina e sconvolge allo stesso tempo, con la forza di un’immagine in perpetua traduzione: dal Pet Sematary di Stephen King alle staccionate di Mark Twain, da Edith Wharton e le sue storie di fantasmi a Coco Chanel, passando per un cyberpunk addolcito, per approdare al nuovo horror statunitense. Nella trasmutazione del racconto e nell’angoscia che vi è sottesa, l’osservatore viene colto dal dubbio su chi guarda e su chi è guardato: mascherare e mascherarsi in un minimal chic alla Etro, tra profumi preraffaelliti e calzature magnifiche, anche questo fa emergere i fantasmi. Nell’epoca dei simulacri, conta di più il volto immaginario di quello reale, l’indeterminato, l’ambiguo.
Eppure Igor Skaletsky ha una personalità solida: è un artista di cultura meditata, le cui origini russe sottendono inequivocabilmente un’esperienza visiva acuta del passato. Però è anche un pittore assetato di contemporaneo che – nella società israeliana di oggi – significa uno sguardo ampio e plurimo sul mondo: spunti anglosassoni, disincantata ironia, arte di ricerca. Tra Mosca, Berlino (quanta Europa nella sua indagine formale) e Gerusalemme, Skaletsky gioca con i valori identitari dell’essere sé e fuori di sé; moltiplica le storie come sintomo di un sentire diasporico che vuol dire (ancora una volta) trovarsi in un luogo del mondo, ma sapere profondamente che si potrebbe essere da un’altra parte, e si potrebbe essere differenti. In questa mostra godibile – che si può visitare al MeV fino al 17 maggio prossimo – l’opera è ascolto, esperienza, pura possibilità. Il testo pittorico è icona, ma custodisce il mistero di tutti, le paure più profonde di ciascuno. Lo fa sfidando ogni logica, esasperando l’estetica in funzione strutturale. Così l’indeterminato dei personaggi – giovani dal sesso incerto, donne eteree dall’animo insondabile, maschere a metà – diviene costruzione di un’identità umana a tutti gli effetti. Con precisione chirurgica, l’artista non crea un universo, quanto un multiverso linguistico. Noi, che guardiamo le sue opere, in quello squarcio esercitato nello spessore della materia, ci facciamo possedere e cambiamo pelle.