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Il polpo che “insegna” agli scienziati

Cosa può fare l’uomo che non sia già stato fatto dalla natura? Può riprodurla, può imitarne la perfezione assoluta, può imparare da essa osservandone la completezza, la magnifica precisione con cui ogni creatura si adatta all’ambiente in cui vive.

Deve aver pensato questo Cecilia Laschi, professore ordinario di Bioingegneria industriale all’Istituto di BioRobotica della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, quando, osservando un polpo, ha avuto la geniale intuizione che ha consentito alla robotica di fare un passo avanti decisivo verso il superamento dei sistemi tradizionali di movimento degli automi. Del resto già nel 1897, quando Herbert George Wells immaginò per la prima volta, nel romanzo da poco mandato in libreria da TESSERE La Guerra dei mondi, come potessero essere le più evolute menti dei marziani tratteggiò il profilo di una piovra o di qualcosa che vi somigliasse.

Già, un polpo, un cefalopode privo di scheletro, dalle incredibili caratteristiche, capace di camminare sui fondali e sulle rocce, di nuotare, di afferrare oggetti, di infilarsi agilmente in una bottiglia di birra, abbandonata in acqua da un incivile, e altrettanto facilmente uscirne, di allungarsi, accorciarsi, schiacciarsi, rimpicciolirsi secondo le necessità.

Cecilia Laschi è nata a Piombino, è cresciuta a Follonica e il suo laboratorio si trova a Livorno davanti al mare. Non poteva essere che una creatura marina ad “insegnarle” a progettare un automa morbido, un soft robot, appunto.

In realtà, l’idea della soft robotics era già nata come alternativa al “tradizionale” robot rigido che si vede nelle catene di montaggio, in sala operatoria, a sminare i territori di guerra, a esplorare Marte, ma che ha limitate capacità di adattamento al contesto in cui deve agire e non è in grado di riprodurre alcuni movimenti. «Per questo – spiega Cecilia Laschi, una laurea in Scienze dell’Informazione a Pisa nel 1993, un dottorato in Robotica all’Università di Genova nel 1998 e oggi una delle scienziate più influenti e brillanti al mondo – abbiamo voluto superare questi limiti, pensando che se un automa deve operare in casa, sotto le macerie o in fondo al mare, la sua capacità di adattamento sia fondamentale. Allora abbiamo intrapreso una sfida: costruire robot con materiali morbidi e deformabili. E abbiamo iniziato a farlo studiando quello che succede in natura».

Così, nel 2009, è partito Octopus, il progetto quadriennale finanziato dall’Unione europea, di cui la scienziata è stata la responsabile e che ha fornito le basi tecnologiche per lo sviluppo della soft robotics in tutto il mondo. Grazie a questo lavoro e agli studi che lo hanno accompagnato, nel 2015 la maggiore comunità scientifica internazionale che riunisce gli esperti di robotica, “RoboHub“, ha inserito Cecilia Laschi fra le «donne geniali della Robotica mondiale» (Ansa), insieme alla collega Barbara Mazzolai, direttore del Centro di Micro-Biorobotica dell’Istituto Italiano di Tecnologia, che ha progettato il primo robot-pianta. Anche lei, non a caso, ha lavorato al progetto Octopus quando era ricercatrice alla Scuola superiore pisana.

Inutile dire che il prototipo realizzato dal team del Sant’Anna ha le sembianze di un polpo e che ha immediatamente rivelato le innumerevoli potenzialità di questi automi morbidi. «La loro caratteristica principale – spiega Cecilia Laschi – è la capacità di adattarsi, cambiando forma quando vengono sollecitati, esattamente come un polpo. Un simile automa può esplorare la barriera corallina senza danneggiarla, entrare con facilità negli anfratti sottomarini e muoversi con maggiore autonomia in situazioni “ostili”, può effettuare operazioni di salvataggio in situazioni di estremo pericolo. La differenza con un automa rigido nato per muoversi nello spazio creato appositamente per lui è sostanziale. Il robot soffice, proprio per la sua natura ha infinite risorse applicabili a ogni campo della tecnologia e della scienza. Del resto, le prospettive della soft robotics sono enormi – spiega – e aprono la strada a scenari finora impossibili da immaginare: robot capaci di strisciare sotto una porta, rimarginare le proprie “ferite”, mimetizzarsi nei diversi ambienti e persino crescere, aumentando realmente la quantità di materiale che li compone».

Dopo Octopus, infatti, il lavoro di Cecilia Laschi e della sua equipe, è proseguito con la realizzazione di altri prototipi, come l’endoscopio a rigidità variabile, che può essere utilizzato all’interno del corpo senza correre il rischio di ferire gli organi interni, oppure il braccio robotico “soffice” che aiuta gli anziani a lavarsi sotto la doccia. In un futuro nemmeno troppo lontano, potranno essere costruite con questa tecnica, parti del corpo umano in grado di simularne le funzioni meglio di un robot costruito con materiali rigidi. Tant’è che in questo momento è allo studio al Sant’Anna la realizzazione di un cuore umano, a cura di Matteo Cianchetti, un giovane ricercatore cresciuto proprio nel progetto Octopus.

Intanto, grazie a un altro finanziamento europeo, è nata una rete, coordinata dalla professoressa Laschi, per mettere insieme tutti gli scienziati e gli istituti di ricerca del mondo che lavorano alla soft robotics, «una community – spiega – molto partecipata e molto attiva che ha l’obiettivo di condividere idee, informazioni e conoscenza». Lo scorso aprile, peraltro, proprio a Livorno si è svolta RoboSoft 2018, la prima conferenza internazionale di soft robotics, di cui Cecilia Laschi è stata la coordinatrice scientifica e che ha raccolto oltre 300 scienziati provenienti da tutto il mondo.

E per il futuro? Le possibilità sembrano davvero infinite e alla concreta portata dell’uomo, non più soltanto il sogno visionario dei romanzi di Asimov.

«Abbiamo in cantiere, se sarà finanziato, un progetto per realizzare soft robot eco-compatibili – spiega Cecilia Laschi – in grado di “alimentarsi” sfruttando le energie rinnovabili, senza bisogno di essere “attaccati alla spina” e quindi di consumare energia. Completamente biodegradabili, affinché, una volta esaurito il loro ciclo, non vadano a ingrossare le montagne di carcasse di componenti elettronici che si accumulano soprattutto nei Paesi del Terzo mondo. Accompagnato anche e soprattutto da uno studio sull’impatto socio-economico di queste macchine», precisa. Un robot sostenibile a 360 gradi, che deve «migliorare le condizioni dell’uomo, non solo sostituendolo nei lavori più pericolosi e degradanti, ma contribuendo a redistribuire le risorse e la ricchezza. A chi va il profitto del lavoro di un robot? Oggi ai colossi mondiali delle nuove tecnologie che le costruiscono, domani chissà. Insomma il mercato deve ancora partire e l’impatto socio-economico va studiato prima per adattare ricerca e produzione alle reali esigenze, senza imporre dall’alto un prodotto di cui non c’è un reale bisogno, in funzione esclusiva del profitto».

Il finanziamento è quello di 1 miliardo di euro, che l’Europa ha messo in campo per lo sviluppo scientifico e tecnologico nel campo dell’intelligenza artificiale e il progetto si intitola FET-Flagship Robotics, presentato dall’Istituto di BioRobtica del Sant’Anna e dall’Istituto Italiano di Tecnologia. Leggi Cecilia Laschi e Barbara Mazzolai, che coordineranno 800 esperti europei, affiancati da altri provenienti da varie parti del mondo per sviluppare i robt e l’intelligenza artificiale del futuro, «avendo come valore centrale la sostenibilità economica, sociale e ambientale», si legge in una nota stampa della Scuola Sant’Anna.

La proposta di progetto sarà giudicata il 4 dicembre a Vienna, durante la conferenza ICT 2018, ma la decisione finale è attesa per il 2020.