ATTUALITÀ STORIE

Ambasciator non porta pena, ma il suo servizio di piatti sì

L’Ambasciata italiana a Mosca

Ho un chiodo fisso: in quante ambasciate d’Italia all’estero il tempo si è fermato ancor prima del 2 giugno 1946, quando ci demmo la Repubblica, liberandoci così dei Savoia complici della dittatura fascista?

L’interrogativo ha una sua pertinenza: fino a dieci anni fa, per ammissione del Governo, erano una quarantina le rappresentanze diplomatiche all’estero (compresa quella di Washington) dov’erano ancora in dotazione piatti e vassoi, bicchieri e posate con la corona e il nodo di quella dinastia che aveva regnato nel Paese fino a oltre settant’anni addietro.

Ora saranno meno, ma certo ce ne sono ancora. Il loro numero esatto, e la loro localizzazione, non si conoscono né il ministero degli Esteri ce lo confida. Ma c’è chi – appena due anni fa – ha constatato che in un’altra nostra importante rappresentanza diplomatica (quella di Londra: che sia un gesto di rispetto per casa colà regnante?), lo stemma Savoia faceva la sua bella figura nei pranzi ufficiali. Forza, allora: che uno/una parlamentare chieda alla Farnesina in quante ambasciate ancora si mangi monarchico e così il ministero sarà costretto a rispondere. E sarebbe la seconda volta.

Già, perché nel 2005, l’allora senatrice diessina Daria Bonfietti (sì, la tenace presidente dell’Associazione delle vittime della strage di Ustica dell’80, ottantuno morti per un missile sganciato “erroneamente” da aereo o nave francese o americana), nel corso di una missione parlamentare negli Usa, scoprì che, appunto, nell’ambasciata italiana della Capitale federale, il tavolo da pranzo per la delegazione di cui faceva parte era apparecchiato con stoviglie marcate “Savoia”. Turbata, quando Bonfietti tornò in Italia, rivolse un’interrogazione al ministro degli Esteri per sapere come fosse mai possibile uno sconcio istituzionale di questa portata.

L’allora responsabile della Farnesina, Gianfranco Fini, mollò la patata bollente al sottosegretario forzista Roberto Antonioni che, ricopiata una velina della segreteria generale del ministero, fece proprie una serie di incredibili castronerie. Leggiamole insieme. Anzitutto lo stato dell’opera. Testuale: «Le dotazioni da tavola delle rappresentanze diplomatiche italiane all’estero sono costituite, in generale, da servizi di gala e giornalieri Antico Doccia [una delle serie più preziose della Richard Ginori, la storica manifattura fiorentina che vive ancora momenti d’incertezza, ndr] che presenta un decoroso bordo in oro e lo stemma della Repubblica. Tale modello ha progressivamente sostituito, da tempo, i modelli Antebellico Ambasciata e Postbellico».

«In generale?» «Progressivamente?» Niente affatto: era stato lo stesso Antonione, o chi per lui, a darsi la zappa sui piedi ammettendo che sì, ehm, «sono effettivamente ancora assegnate a una quarantina di sedi dotazioni del modello Antebellico il cui bordo presenta invece lo stemma sabaudo». E tra queste sedi – altra ammissione imbarazzante – c’è (o c’era?) non solo Washington ma anche Mosca. Insomma, tra la “quarantina” ci sono le rappresentanze più importanti. Poi una prima giustificazione, di carattere finanziario: «Tali dotazioni hanno peraltro un notevole valore intrinseco e la loro sostituzione completa con altrettante del modello Antico Doccia richiederebbe un costo oggi difficilmente sostenibile con le disponibilità del relativo capitolo di bilancio».

E se la Farnesina avesse pensato a mettere all’asta quei servizi? Di sicuro avrebbe trovato decine di gonzi, o di furbetti del quartierino, o nostalgici della monarchia, o – vivaddio! – cultori delle antiche, preziose produzioni Richard, ben disposti ad acquistarli. E poi: possibile che in tanti decenni di regime repubblicano non si sia pensato a scadenzare la spesa per la progressiva sostituzione? Eh, no. Perché qui spunta una seconda giustificazione (o farneticazione): quella pseudo-storica. D’altra parte, soggiunse infatti il sullodato Antonione, «i simboli dei Savoia sono tuttora presenti sotto multiformi spoglie. Basti ricordare che sia l’azzurro sportivo che quello delle fasce d’ordinanza degli ufficiali delle forze armate richiamano espressamente l’azzurro di casa Savoia». Insomma, «appare difficile rinnegare la storia e mettere in non uso apparati di rappresentanza che ad essa si richiamano, come simbolo di continuità della nazione».

Capito? Prima che – passati oramai quasi tre lustri da questa stupefacente nota ministeriale – qualcun altro faccia tesoro di queste castronerie, qualcuno o qualcuna tra i deputati e i senatori torni per cortesia ad interrogare gli Esteri per sapere: a) quante sono oggi le ambasciate ancora savoiarde; b) qual è, ora, la giustificazione che si adduce alle residuali testimonianze della monarchia. Altrimenti, quando una delegazione capita in una delle ambasciate dove, almeno su piatti e posate, non è riconosciuta la Repubblica, non s’azzardi neppure ad alzare un sopracciglio: casa Savoia non si tocca neanche con una forchetta.