Una studiosa con «un’intelligenza affettuosa degli altri»: nel ricordo di Adriano Sofri, emergono tutto il carisma di Anna Bravo, la sensibilità critica e la statura morale. Lei se ne è andata domenica scorsa per un malore a 81 anni, nella sua casa torinese; di notte, naturalmente. Le si addiceva il brusio notturno dei pensieri, quando l’oscurità la faceva più lucida, disincantata.
Storica sociale del contemporaneo all’Università di Torino, nota per i suoi studi sulla questione femminile e sui diritti delle donne, Anna Bravo ha rappresentato – per almeno due generazioni di studenti – la coscienza critica intorno ai movimenti della Sinistra, sulle grandi scelte che hanno attraversato la seconda metà del Novecento europeo. Da sempre coerente ad un’immagine di femminilità diversa, ha interpretato il dissenso con serietà assoluta ed una sorta di trasognata, spesso ironica, innocenza. Eppure, Anna ha sempre posseduto la capacità empatica d’immedesimarsi nel dolore degli altri ed illuminarlo: «Tra gli storici – sosteneva – c’è un’implicita accettazione dell’idea che sono la violenza e la guerra a fare la storia. In realtà, come diceva Gandhi, se fosse stata egemone la guerra, noi non saremmo vivi».
Come non ricordarla nel suo dialogo – intimo ed instancabile, a scavare nelle radici del male, fino a ritrovare una goccia di vita – con i sopravvissuti ad Auschwitz: con Primo Levi, ad esempio, cui dedicò (con Federico Cereja) la splendida Intervista, edita nel 2011 da Einaudi; con Edith Bruck, amica, sodale nella realizzazione di tante iniziative dedicate alla Shoah. Anna Bravo non ha mai avuto paura d’indagare; lo ha fatto con acribìa e pudore, allo stesso tempo, quando ha scritto La vita offesa. Storia e memoria dei Lager nazisti, uscito nel 2004 da Franco Angeli. Storia e memoria: parole d’ordine che attraverseranno la sua vita come un monito, una direzione. Precisione e racconto sensibile, quasi la vita degli altri uscisse dalle sue mani, per essere fissata sulla carta. Spesso controcorrente, rispetto ad ogni narrazione agiografica, ad ogni retorica. Anna, nelle notti in cui rifletteva o riceveva gli amici, circondata dagli affetti più cari e dai suoi gatti; Anna che s’indignava, anche con se stessa, e pareva allo stesso tempo affettuosa, lieve, fin dai tempi in cui studentessa, ad Asti – fine anni Cinquanta – si faceva raccontare dai compagni partigiani le storie della Resistenza.
Anna Bravo ascoltava, e suonava la chitarra. Tuttavia, già da allora, maturava la necessità di una visione più ampia, che coinvolgesse il rapporto con la violenza e ne identificasse i vizi sostanziali . A lei, classe 1938, dapprima militante del Partito Comunista Italiano, poi passata a Lotta Continua, il colpo d’occhio sulla Resistenza sembrava incompleto (pur senza disconoscerne i meriti): «Il termine “Resistenza” andrebbe sempre pensato al plurale. – ha spesso dichiarato – Il comportamento attivo non è solo ciò che si fa con le armi … Esiste anche la Resistenza passiva, anche se (per la nostra cultura) ciò è considerato svalutante. A torto: pensiamo solo cosa potesse significare disobbedire nell’Europa occupata!. Ecco, credo che la storiografia non abbia negato l’opera dei civili, ma le abbia interdetto la definizione, il titolo di “Resistenza”, specie per ciò che riguarda il ruolo delle donne». Sono gli spunti che Bravo svilupperà per tutta la vita, sia attraverso l’insegnamento universitario, sia nella ricerca, scrivendo autentici capolavori come Storie di donne. 1940- 1945 (con Anna Maria Bruzzone), per i tipi di Laterza, o Storia sociale delle donne (con Lucetta Scaraffia), sempre per Laterza, 2001. Anna, che ha attraversato i decenni della presa di coscienza e della rivendicazione femminista, è giunta – con lucidità estrema – a dichiararne i limiti, i paradossi e i pregiudizi. «Abbiamo fatto degli errori – ha rivelato a Simonetta Fiori de “La Repubblica” – perché anche nella lotta che le donne hanno combattuto per rivendicare la propria libertà, la propria autonomia decisionale, era sempre presente la violenza: quella di cui portiamo una responsabilità per averla agita, tollerata, misconosciuta, giustificata … e non solo negli scontri di piazza o nei picchettaggi, ma anche – ha aggiunto – nell’immaturità con cui allora le donne si misuravano con la questione dell’aborto. Tendevamo a sorvolare sul fatto che le vittime erano due, la donna e anche il feto. E che non sempre la donna era una vittima: poteva sceglierlo anche per il rifiuto della maternità, perché non si sentiva pronta, per ostilità alla propria madre, perché c’erano altre priorità. Eravamo giovani, nel pieno della lotta. Vivevamo di corsa, totalmente assorbite».
Se le si ricordava la tragedia degli aborti clandestini, Anna riconosceva l’importanza della legge 194, ma obiettava che c’erano troppi argomenti di cui non si teneva affatto conto: il feto soffrirà? Quando? Prima o dopo la ventiquattresima settimana? Soprattutto, come porvi rimedio? Concludeva: «Bisogna parlarne oggi», e lo faceva, lo ha sempre fatto, con assoluta nettezza, come un imperativo categorico. Sempre più spesso, negli ultimi anni della sua vita.
Nel 2013, ancora con Laterza, Anna Bravo ha pubblicato un libro basilare: La conta dei salvati. Dalla Grande Guerra al Tibet: storie di sangue risparmiato. Vicende di chi non ha permesso la deflagrazione dei conflitti o che ha praticato la pace, da Mandela a Tutu, da King al Dalai Lama; ma anche racconti di persone sconosciute che hanno combattuto in modo non violento e hanno aiutato a risparmiare vite. «Le storie di sangue risparmiato – ripeteva Anna agli studenti, agli amici – bisogna saperle riconoscere, ma sono importanti, più importanti di tutto il resto». Altrettanto netta, ostinata e contraria, anche se estremamente coerente con la sua vita, la posizione assunta recentemente riguardo alla polemiche del #metoo. È stata l’unica a difendere le dichiarazioni di Catherine Deneuve, quando l’attrice francese ha affermato: «Rivendico la libertà di farmi importunare dagli uomini». Le parole di Bravo esprimono una forte autodeterminazione: «È sbagliato considerare le donne solo vittime – ha commentato – quando va loro riconosciuto l’essere soggetti di un potere, magari piccolo, ma non trascurabile». In privato, aggiungeva sarcastica: «Non siamo sceme, sappiamo distinguere tra un corteggiatore maldestro e uno stupratore …».
Anna lavorava soprattutto di notte: nella notte oscura del nostro presente sociopolitico, nel buio delle prospettive. Il suo sguardo, tuttavia, andava anche oltre i nostri asfittici confini. Da decenni componente del comitato scientifico della Fondazione Alexander Langer, era – almeno ufficiosamente – considerata la biografa dei Premi Langer assegnati, un anno dopo l’altro, a personaggi distintisi per la loro lotta pacifista. In quest’ultimo periodo, era seriamente preoccupata per la sorte di Khalida Toumi, 61 anni, algerina, militante per i diritti delle donne nel Paese arabo. Condannata a morte da due fatwe, braccata e ferita negli anni in cui il terrore islamista costò all’Algeria centomila morti, poi parlamentare e Ministro della Cultura – «Prima donna a ricoprire quella carica», commentava Anna con un sorriso – Khalida si era battuta per una riforma dell’istruzione e del codice di famiglia. Dal 4 novembre, la Toumi è stata indagata per illeciti nella gestione del suo Ministero, e incarcerata. Un pensiero in più, nell’ultima notte di Anna Bravo. Eppure, se esiste un senso nello studiare e divulgare le storie di tutti (e lei ci credeva con forza), bisogna continuare a parlarne. Bisogna farlo oggi, in nome suo, e domani.
* video del convegno «Davanti a Villa Emma. La costruzione di un luogo per la memoria dei ragazzi ebrei salvati a Nonantola»