ATTUALITÀ STORIE

La Costituente e il primo scandalo della Repubblica

Il primo scandalo della Repubblica, ad aprile del 1947, con le accuse di malaffare lanciate nell’aula della Costituente da Andrea Finocchiaro Aprile, leader del Movimento per l’indipendenza della Sicilia
Andrea Finocchiaro Aprile al ritorno in Sicilia da Ponza, dove era stato confinato nel 1945 insieme ad Antonino Varvaro, dal Governo Parri nel tentativo di stroncare il Movimento per l’indipendenza della Sicilia

Il primo scandalo della Repubblica? Esplode nell’aprile del 1947, con le roventi accuse di malaffare lanciate, nell’aula della Costituente, da Andrea Finocchiaro Aprile, oramai semidimenticato leader del Movimento per l’indipendenza della Sicilia. Le accuse vengono da lui mosse nei confronti di due ministri democristiani: Pietro Campilli (Finanze e Tesoro) ed Ezio Vanoni (Commercio estero). La prima denuncia di illeciti arricchimenti, la madre di tante sporche vicende culminate – ma non certo poi finite, anzi ancora moltiplicate – con la stagione di Tangentopoli.

Neppure un anno è trascorso dal voto che ha scacciato i Savoia. Si è appena costituito il terzo governo presieduto da Alcide De Gasperi, l’ultimo con la partecipazione dei comunisti e dei socialisti che ne verranno estromessi di lì a qualche mese, dopo il viaggio del presidente del Consiglio negli Stati Uniti. Finocchiaro Aprile (a lungo deputato, e sottosegretario con il grande meridionalista Francesco Saverio Nitti, prima del fascismo, e ora alfiere del sussulto separatista) aveva bisogno di visibilità per il proprio movimento e aveva in mano qualche carta da giocare per rivelare quella che gli storici della prima Repubblica indicheranno come la prima scandalosa vicenda politico-affaristica del secondo dopoguerra.

Nel dibattito sulla fiducia al governo, Finocchiaro Aprile preannuncia per l’indomani rivelazioni imbarazzanti su ministri che, contro ogni norma morale e penale (le prime leggi verranno in seguito, proprio per le denunce del leader del Movimento) giocavano in borsa o avevano ricoperto incarichi extraparlamentari ben retribuiti. Il pomeriggio del giorno dopo, aula e tribune sono gremite, in attesa delle famose rivelazioni. Ma alcuni dati preziosi tardano: chi è delegato a fornirli non arriva per tempo. Sicché, quando è chiamato a intervenire, Finocchiaro Aprile non può che confidare sulla propria facondia oratoria per guadagnare tempo. Tempo in effetti ben impiegato perché mentre sta parlando finalmente il messaggero arriva trafelato a Montecitorio. Un giornalista, amico e collaboratore di colui che s’appresta alla denuncia – Mario La Rosa, allora giovane cronista parlamentare – è in attesa all’ingresso della Camera; strappa di mano il prezioso documento al messaggero, taglia di corsa la sala stampa, il “corridoio verde” e il Transatlantico e, non trovando all’istante un commesso che rechi l’essenziale messaggio, entra nell’aula, salta a due per volta gli scalini che portano al banco di Finocchiaro Aprile e glielo consegna. Immaginarsi l’ira di commessi, funzionari e questori della Camera per la profanazione e il profanatore, nei cui confronti comunque l’associazione dei giornalisti adottò un severo provvedimento più tardi condonato.

Difficile dire della sensazione per le accuse lanciate ora in aula: a Campilli si contestavano speculazioni in borsa, proprio sfruttando i propri incarichi di governo, mentre Vanoni (che si rivelerà poi, in altri e ben più rilevanti incarichi ministeriali, un rispettato economista autore di serie riforme fiscali) era chiamato in causa per aver percepito compensi illeciti da commissario, per conto del Comitato di liberazione nazionale, della Banca nazionale dell’agricoltura. Campilli si difenderà sostenendo (e facendosi appoggiare dal direttore generale del Tesoro) che un agente di cambio aveva sì speculato in borsa a suo nome, ma a sua insaputa (un po’ come, tanti anni dopo, avrebbe sostenuto un altro ministro, il berlusconiano Scajola, a proposito dell’acquisto di uno splendido appartamento di fronte al Colosseo). Dal canto suo Ezio Vanoni sosterrà di aver trattenuto solo un terzo del monte retribuzioni-liquidazione e di averne versato il resto al suo partito, novità che diverrà norma (non solo in casa dc) per tanti decenni e sino ad oggi.

Giustificazioni un po’ fragili, tanto che la Costituente decise di nominare una assai autorevole commissione d’inchiesta: c’erano tra gli altri l’azionista Piero Calamandrei, il liberale Aldo Bozzi, il socialista Ludovico D’Aragona. La commissione concluse i suoi lavori alla vigilia della crisi di quel terzo governo De Gasperi censurando incarichi e affari extraparlamentari; accertando che ben 67 deputati ricoprivano cariche retribuite presso banche, aziende ed enti economici pubblici; raccomandando infine una regolamentazione – formulata di lì a poco per legge – della incompatibilità per i membri del Parlamento e ancor più per i membri del governo.

In sostanza Vanoni e ancor più Campilli non risultavano pienamente assolti. Anche se il loro collega di partito Giovanni Gronchi, che sarebbe diventato più tardi prima presidente della Camera e poi presidente della Repubblica, sostenne che le accuse, in particolare quelle rivolte a Campilli, erano così circostanziate da rendere opportuna la sua estromissione dal governo. E allora De Gasperi volle che fosse un voto dell’assemblea a sgravare i due ministri da ogni sospetto. «Le sinistre, pur essendo alla vigilia dell’allontanamento dal governo, e forse per rinviare se non evitare quest’evento, solidarizzarono con la Dc», noterà più tardi il politologo Giorgio Galli nel suo Affari di Stato (1991), la prima storia degli scandali, dei misteri, delle corruttele nell’Italia repubblicana.