Pavesata di gigli rossi in campo bianco e svastiche, la città di Firenze celebrava ottanta anni fa la festa macabra che vide i due «condottieri», come li definisce la voce stentorea del commentatore dell’Istituto Luce, sfilare in auto scoperta per le sue vie, passare i ponti che di lì a sette anni verranno fatti saltare, percorrere i lungarni presidiati dalla folla festante dei «miti carnefici», per usare le parole di Montale: è la Primavera hitleriana, l’invasione di una città trasformata per mesi in cantiere di cartapesta, il trionfo di apparati effimeri e scenografie medievali che costarono al Comune oltre 19 milioni di lire.
Il treno speciale con a bordo il «messo infernale» (sempre per citare il poeta) era giunto nel primo pomeriggio da Roma, al binario 16 della neonata Stazione Santa Maria Novella di Giovanni Michelucci, in un tripudio di fiori, stendardi, stemmi sabaudi, fasci littori dorati, musiche trionfali (Deutschland über alles suonato accanto alla Marcia reale e alla note di Giovinezza): ad accoglierlo c’erano Benito Mussolini, i ministri Ciano, Starace e Bottai, tutte le autorità cittadine e un cicerone suo malgrado, Ranuccio Bianchi Bandinelli, allora professore all’università di Pisa. Rampollo di un’illustre casata senese, il giovane e già stimato archeologo, che aveva fatto come molti accademici il giuramento di rito ma nutriva una profonda avversione per il regime e per il Führer in particolare, racconta di aver fatto di tutto, nelle settimane precedenti, per evitare di accompagnare il dittatore per musei, scavi e gallerie di Roma e Firenze, ma di non essersi potuto sottrarre al volere delle autorità fasciste, che volevano un uomo esperto, possibilmente di alto lignaggio e che parlasse bene il tedesco.
La storia personale dell’insigne studioso la racconta lui stesso nelle memorie contenute in Dal diario di un borghese (la prima edizione, del 1948, copre il periodo dal 1920 al 1944, la seconda arriva, con l’Epilogo, al 1962): nello stesso 1938 rifiuta la direzione della Scuola archeologica italiana di Atene, vacante in seguito all’allontanamento, per via delle leggi razziali, di Della Seta; passato all’università di Firenze si dimette durante la Repubblica di Salò; arrestato come ostaggio dai fascisti, chiede nel 1944 l’iscrizione al Partito comunista italiano per poi riprendere l’insegnamento interrogandosi sul ruolo degli studi archeologici, in una celebre prolusione dal titolo A che serve la storia dell’arte antica? che ancora si legge nei nostri atenei.
Sempre nelle sue memorie racconta di aver meditato, preparando l’itinerario fiorentino di Hitler, sulla possibilità di organizzare un attentato in quella occasione, ma di non essere riuscito ad entrare in contatto con i gruppi antifascisti cittadini. Come che sia, la visita si svolge secondo il paludato e para-festoso programma, passando per piazza Santa Croce, Piazza Signoria, il Viale dei Colli, Piazzale Michelangelo e, alla sera, il Teatro del Maggio voluto da Alessandro Pavolini, con la rappresentazione del verdiano Simon Boccanegra. Unica eccezione all’apparato di medievaleggiante tripudio le ben note finestre chiuse dell’arcivescovado, allora occupato dal cardinale Elia Dalla Costa e, stando alla leggenda metropolitana, la vetrina di una pasticceria del centro posta lungo il percorso che avrebbe esibito la foto dei due dittatori circondata da scatole di biscotti dei “Fratelli Lazzaroni”.
A chi, a distanza di tanti anni, vede con sgomento i filmati dell’evento disponibili su youtube, viene da chiedersi come mai il David, sotto il fiero sguardo del quale (seppure in copia), i due passano per ben due volte, non abbia colto l’occasione per impugnare la sua fionda, mirare bene e, dall’alto del suo piedistallo di marmo, risparmiare all’Italia e all’Europa un bel po’ di orrori. Sarà stato annichilito e incredulo, anche lui.