La grande orchestra è uno dei simboli della musica e nel jazz non fa eccezione. Tra le difficoltà che ne rendono mitica l’esistenza, c’è quella logistica: muovere 20 e più persone, metterle sul palco, assicurargli un pasto e un letto, nel jazz poi è sempre stata cosa ardua, al punto che la partecipazione dei singoli musicisti è spesso volontaria, lasciando in cambio al “capogita” del progetto più oneri che onori.
Parlando di orchestre “moderne”, tra le esperienze più gloriose vorremmo ricordare quelle americane di Sun Ra (la sua Arkestra), Charlie Haden (la Liberation Music Orchestra) e Carla Bley (la Jazz Composers Orchestra Association). Senza dimenticare negli anni Settanta quelle della grande utopia del jazz inglese: il progetto Centipede (100 piedi x 50 musicisti) del pianista Keith Tippett, l’orchestra di Mike Westbrook (il cui apice Metropolis rimane insuperato) e quella di Chris McGregor (Brotherhood of Breath). Poi il riflusso, fatto in gran parte di stanchi ripescaggi live: ma la brace libertaria del jazz è sempre rimasta a covare sotto la cenere. Riaccesa dal fiato possente di Mats Gustafsson, sassofonista svedese 55enne, affermatosi come uno dei riferimenti assoluti del jazz europeo per il suo stile intenso e combattivo, lirico e dissonante, strutturato e improvvisativo, sostenuto da una cordialità umana che lo ha portato a girare il mondo per suonare con tantissimi artisti sulle due sponde dell’Atlantico.
Il percorso artistico e il modo di suonare di Mats Gustafsson ben richiamano l’idea fisica di espansione: prima il trio The Thing (dal 2000), poi il trio Fire! (dal 2009), subito accresciuto da collaborazioni ardite per via del suo innovativo approccio alla musica improvvisata. Saccheggiando influenze dal free jazz, dal rock psichedelico, dal noise, dal noir cinematico e persino dal krautrock, registrando tanto per cominciare con l’americano Jim O’Rourke prima e l’australiano Oren Ambarchi poi, come per bisogno.
L’esplosione risale al 2012, quando in occasione di un concerto a Stoccolma il trio Fire! si presentò sul palco con un ensemble di 28 elementi, e registrò per il logo Rune Grammofon – l’ECM scandinava – l’album dal titolo Exit pubblicato agli albori dell’anno successivo. Un esordio fulminante che ha riattizzato l’eterna diatriba tra puristi del jazz – sostenitori di un parametro stilistico immutabile, guarda la contraddizione – e riformatori, crociati del cambiamento a prescindere, per quanto imbarazzante possa essere.
Poi Enter e a seguire Ritual, in un crescendo entusiasmante e carico di aspettative, fino alla pubblicazione di Arrival alle porte dell’estate 2019: la prima cosa che si osserva è l’articolazione dei brani, non più parti di un effluvio improvvisativo, ma composizioni diverse e definite nel titolo e nello svolgimento, come testimoniano e confermano un paio di cover particolarissime. La prima è Blue Crystal Fire dello sfortunato Robbie Basho, morto per accidente a soli 45 anni quando era già nella trinità del folk americano con John Fahey e Leo Kottke; la seconda è At Last I Am Free degli Chic, in realtà assurta a icona del songwriting per via della rabbrividente rendition di Robert Wyatt, in parallelo alla quale, peraltro, fa la corsa l’orchestra. In entrambi i casi, uno stravolgimento straordinario e struggente reso con la sensibilità, la delicatezza e la genialità di un ensemble da camera, si potrebbe dire.
Eh sì, perché la “nuova” Fire! Orchestra sfoggia un quartetto d’archi e un trio di clarinetti che rivaleggiano con la centralità del trio di origine, supportano ed esaltano la virtù delle voci di Sofia Jernberg e Marian Wallentin, moglie del batterista Andrea Werliin e compagna nell’atipico duo folk/pop Wildbirds & Peacedrums: alla quale viene finalmente riconosciuto un ruolo cruciale nella creazione, sviluppo e produzione del progetto come mai accaduto prima.
Colta la sorprendente chiave di interpretazione di Arrival, si può avventurarsi nell’ascolto delle composizioni originali, che certamente scavalcano le barriere di genere, imbarazzando di imbarazzo i puristi del jazz e stupefacendo gli stupefatti del rock: si potrebbe preferire tra tutte Silver Trees, intima e appassionante fino a strozzare il cuore dell’ascoltatore. Ma a ben sentire le sette tracce di Arrival sono come gli ottomila dell’Himalaya, tante e tutte vette di emozione e maestria corale: sempre scegliendo in cordata la chiave dell’ascesa circolare, come l’iniziale e ariosa (I Am A) Horizon, che mette subito in chiaro il protagonismo dei nuovi innesti creativi, oppure Dressed In Smoke, Blown Away, che calca la mano sui timbri bassi della ritmica del trio originario, il già citato batterista Andreas Werliin e ancor di più il poderoso contra/bassista Johan Berthling.
Le suggestioni e i rimandi della Fire! Orchestra ai 70 della stagione utopica del jazz europeo sono infinite: anche in questo sta la magia di Arrival, che fa risuonare le corde della memoria e allo stesso tempo accompagna per mano nei territori sempre accidentati dell’avantgarde. Tutto il vinile – in realtà sono due con cd in omaggio – dà una sensazione di grande potenza e allo stesso tempo di grande controllo: disco bellissimo, anzi “splendido”, si può dire?