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La storia di una famiglia in un viaggio senza fine

Ugo Caffaz (terzo da destra con gli occhiali da sole) in visita ad Auschwitz il 15-6-1982 con Primo Levi (il primo a sinistra) e Baldo Gulotta (il primo a destra di fianco)

A Essaouira in Marocco io e Serena comprammo le nostre fedi nuziali ma la mia era un po’ larga e la persi subito, al primo bagno in mare. Lei si disperò, prendendolo come un segno del destino. “Macché destino, si ricompra più stretta”. Cosi facemmo e, inshallah, stiamo ancora insieme dopo otto anni.

Alfredo De Girolamo

Questi sono i tempi contemporanei: piccoli sputi, se paragonati ai tempi lunghi di cui parla Da Mogador a Firenze di Alfredo De Girolamo, che è la storia di una famiglia che non è la sua, ma che comincia nel 1836 e nello stesso posto, solo che allora si chiamava Mogador e non ancora Essaouira.

Allora come oggi, una lingua di sabbia e scogli protegge la spiaggia di Mogador dalle onde dell’Atlantico. È questa la ragione per cui oggi è molto frequentata dai surfisti e ieri dai mercanti di schiavi: un approdo naturale, comodo e sicuro. È questa la ragione per cui in diverse epoche dell’età moderna molte famiglie di ebrei ripararono lì dalla Spagna, dall’Olanda, dall’Italia. Erano le uniche famiglie in cui non si parlava una sola lingua: ebraico, spagnolo, italiano, fiammingo, arabo si mescolavano tra loro. Sapere più lingue veniva per loro dallo stesso motivo per cui la cena di Pasqua – la festa più importante di tutto l’anno – si mangia in piedi o si prega ballonzolando avanti e indietro per ricordare l’andatura di chi monta un cammello. Perché sono un popolo sempre in movimento e abituato a gettare radici in ogni luogo. Da sempre hanno imparato per necessità quello che adesso la globalizzazione comunque insegna a noi, volenti o nolenti: a tenere insieme più identità. Naturalmente come sempre c’è chi si rifiuta e si rifugia nell’estremo opposto: la difesa ad ogni costo di un’identità unica, assoluta e totalizzante, impaurita dal mondo. Il loro destino inevitabile è la guerra e poi la morte, ma dopo aver fatto parecchi danni. Storia già vista ma che vedremo ancora, mi sa. Perché la paura è sempre il sentimento di gran lunga più potente negli esseri umani di ogni tempo e di ogni spazio. La curiosità, il coraggio, la voglia di sapere sono invece piante delicate, che per crescere hanno bisogno di fiducia e sicurezza di sé. Più o meno quanto fa (o dovrebbe fare) la scuola.

La scuola di Ari, il ragazzo con cui comincia la storia della famiglia di questo libro, è un ricco mercante cui viene affidato dai suoi genitori. Destinazione Livorno, centro commerciale del corallo lavorato. Prima lezione, cambio del nome: da Ari El Cabas a Leone Caffaz, perché bisogna mimetizzarsi nel mondo dei “gentili”, dei non ebrei. Identità multiple, appunto. Il mercante maestro di Ari-Leone è un cittadino del Granducato di Toscana con salvacondotto internazionale e un business che spazia in tutti i rami del commercio a lunga distanza: stoffe, datteri, aringhe. Non per vocazione ma per obbligo: il divieto di possedere la terra da secoli confinava la sopravvivenza degli ebrei nel regno dei mercati. Buffo come gli obblighi imposti da altri diventino stereotipi: l’ebreo avaro e usuraio non è altro che il prodotto artificiale dei nostri ingiusti regimi di esclusione. Quando nel maggio 1790 il Granduca abolì i privilegi delle confraternite cattoliche, la gente se la prese con gli ebrei: come sempre bersaglio facile e indifeso di invidie e paure. Nondimeno Ari-Leone sposa nel 1837 Abigail-Fortunata a Livorno per poi mettere su casa a Pisa. Nel 1852 hanno già sette figli e per sfamarli Leone il Marocchino fa il merciaio ambulante per tutta la provincia. Fino a che non muore nel 1864. Giacomo, ultimo figlio di Leone, segue il destino dei fratelli sparpagliati in luoghi diversi della nuova Italia dei Savoia. Lui va a Lugo di Romagna, dove prosegue lo stesso mestiere del padre. Nel 1895, l’anno della sconfitta di Adua, nasce l’ultimo dei suoi cinque figli. Ugo, anche lui venditore ambulante di stringhe e trine, è il primo della famiglia Caffaz a spostarsi a Firenze. Guerra e fascismo sono bufere che lo costringono a piegarsi, nella speranza di passare inosservato. Meglio non occuparsi di politica, di questi tempi. Ma è la politica a cercare lui, nel 1938 con le leggi razziali di Mussolini. Inizia (o ricomincia) una vita clandestina fatta di sospetto, diffidenza, paura. Nel 1943 gli ebrei di Roma vengono rastrellati e inviati ad Auschwitz: di quasi novemila ebrei arrestati in Italia ne torneranno vivi poco più di mille. Più di un terzo degli arresti viene effettuato non dai tedeschi ma dai «ragazzi di Salò», tanto per dire la differenza tra i fascisti e gli altri che è come la differenza tra la morte e la vita.

Ugo Caffaz

Scampata ad ogni sorta di pericolo, Tosca mette al mondo nel 1946 Ugo Caffaz, nonostante abbia ormai quasi quarant’anni. Ma è l’esaudimento di un voto custodito gelosamente negli anni della paura: se sopravvivo, comunque farò un altro figlio. La vita contro la morte, appunto.

Io e Ugo siamo appena tornati dall’ennesimo Treno della Memoria. Li facciamo regolarmente insieme dal 2004 e ogni volta diversi delle centinaia di ragazzi che vengono con noi, arrivano con le loro facce insolitamente serie nel nostro scompartimento, ci ringraziano e ci dicono che questo viaggio li ha cambiati per sempre. Hanno visto Auschwitz, hanno ascoltato testimoni, sono entrati nella dimensione sconosciuta (fortunatamente per loro) del male: della sofferenza e della malvagità. È come se Ugo, oltre ai suoi due, avesse qualche altro migliaio di figli, illegittimi di natura ma legittimi per riconoscimento di una comune speranza: che nessuna lacrima sia stata versata invano e che il mondo possa diventare migliore. Alla faccia della paura. La fede non si perde in mare. Si ricompra. Ogni giorno.

ALFREDO DE GIROLAMO, Da Mogador a Firenze. I Caffaz, viaggio di una famiglia ebrea, Padova, Grafica Veneta, 2019, pp. 80, s.p.

L’intervista a Baldo Gulotta sul viaggio ad Auschwitz nel 1982 con Primo Levi e Ugo Caffaz