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L’Africa nel cuore

Foto: Corriere della Sera

Avevano tutti l’Africa nel cuore, gli otto italiani che hanno perso la vita nel disastro aereo della Ethiopian Airlines: quattro volontari di associazioni umanitarie (Matteo Ravasio, Carlo Spini, Gabriella Vigiani, Paolo Dieci), tre giovani funzionarie delle Nazioni Unite (Maria Pilar Buzzetti, Virginia Chimenti e Rosemary Mumbi), un archeologo (Sebastiano Tusa). Le 157 vittime erano di 35 nazionalità, moltissime impegnate nella cooperazione internazionale. Una tragedia che si accompagna a un’altra quasi dimenticata, di cui non si sa più nulla: quella della volontaria Silvia Costanza Romano. Nella notte tra il 20 e il 21 novembre 2018 la giovane milanese è stata rapita nel villaggio keniota di Chamaka. Ed è sparita. Perché la storia di Silvia e quella delle vittime dell’incidente aereo hanno elementi in comune? Proprio perché tutti fanno parte dell’«internazionale del bene», come ha titolato il quotidiano l’Avvenire qualche giorno fa. Espressione che ha senso anche in questa Italia incattivita, in cui “il contrario del bene” e “la banalità del male” sembrano molto più trendy.

Queste vicende mi hanno fatto tornare in mente un viaggio in Kenya di qualche anno fa. Tornando con un fuoristrada da un parco ai confini con la Tanzania, passammo attraverso un villaggio dell’entroterra: i bambini ci correvano dietro lungo la strada in terra battuta, salutandoci, urlando e ridendo; molti avevano la divisa delle scuola, sebbene per lo più corressero a piedi nudi. Dopo quella prima esperienza pensai, e penso tuttora, che ognuno di noi porti nella sua mente, magari senza accorgersene, il ricordo di un pezzetto di Africa nera, dei nostri lontanissimi progenitori, che proprio lì hanno mosso i primi passi. E credo che quei paesaggi, quella gente e quella natura evochino una sorta di dejà vu, forse la sensazione che chiamiamo romanticamente “mal d’Africa”.
A me tuttavia pare soprattutto che, nel nostro mondo, si abbia un’immagine stereotipata di quel continente, ancora pregna di memorie coloniali e di presunzione occidentale. Eppure lì ci emozioniamo, fino ad avere un po’ paura, per altre ragioni: proprio perché da quelle parti ci sono le nostre radici e anche le nostre ansie; sappiamo che da lì veniamo e che lì potremmo, più o meno metaforicamente, tornare; quegli uomini, quelle donne e quei bimbi, così vivi ma così distanti, ci affascinano ma pure ci respingono.

Silvia Romano

Ecco, siamo diversi: non lo affermo in senso razzistico, intendo affermare che noi adottiamo linguaggi mentali differenti dai loro per rappresentare esigenze e aspettative non sovrapponibili. Come far comprendere davvero a un keniota i nostri problemi (depressione, stress, invidia per la ricchezza altrui, rate da pagare, liste d’attesa per un esame clinico, eccetera) quando in Kenya, dove già si campa meglio rispetto al resto dell’Africa, non ci si confronta con l’esigenza di vivere bene, secondo la nostra concezione occidentale, ma con l’istinto di sopravvivere? Ad esempio, l’acqua potabile è un lusso riservato a un’élite (ho visto a Malindi – che equivale come prestigio turistico alla nostra Portofino – madri con un neonato sulla schiena raccogliere l’acqua dalle pozzanghere, davanti ai ristoranti per turisti, e metterla nelle taniche). Con un reddito medio di 75 euro al mese (quando si è fortunati) è difficile comprare anche l’aspirina, che costa come in Italia; non parliamo dei farmaci necessari per curare la comunissima malaria. La gente abita spesso in case fatte di fango, legno e sassi, magari celate dalle palme a trecento metri dalle mura dei nostri villaggi turistici. Altro che Tav. La tv nazionale, quando ero lì, proponeva quesiti come questo: «È giusto che le Ferrovie siano ritenute responsabili dei danni subiti da coloro che viaggiano aggrappati esternamente ai vagoni o sui tetti delle carrozze?».
In compenso quasi tutti i cittadini del Kenya parlano due lingue (inglese, eredità coloniale, e swahili), alcuni tre (tipo francese o italiano o arabo). Il 95 per cento dei bambini va a scuola per otto anni, l’87,5 sa almeno leggere e scrivere (in Italia il 99,2). Altrove va molto peggio. Incredibile ma vero. Però tanti di noi non lo immaginano neppure.
Mi sono convinto del fatto che, quando siamo laggiù, potremmo non solo capire meglio; dovremmo anche “fare del bene” – a loro e pure a noi – cercando di dialogare prima di sganciare un euro, provando a capire qualcosa di più, rispettando la loro cultura e la loro vita e prendendo coscienza dei loro e dei nostri limiti.

Il peggio invece, per chi va lì pensando di non essere un razzista, è coltivare il mito del “buon selvaggio”, a uso e consumo di una vacanza più o meno breve. Non è giusto. Né per loro, che devono poter credere nelle proprie forze. Né per noi, che non dovremmo continuare a nascondere la testa nella sabbia delle nostre “certezze”: un’abitudine molto comoda, certo; lo è persino quando li incontriamo in Italia, lungo la strada dietro casa, magari accanto alla porta del nostro bar preferito.

Sarebbe meglio, e meno ipocrita, dedicare un po’ dei nostri soldi (pochi), invece che all’elemosina estemporanea, ai progetti portati avanti da organizzazioni religiose e laiche che vogliono rispondere ai bisogni primari e reali; pure a quelli degli africani che non hanno mai visto un turista “compassionevole” in vita loro. È ciò in cui si impegnano tanti occidentali che dedicano, senza presunzione, parte della loro vita a quelle persone. Come stava facendo Silvia, prima di essere sequestrata; come facevano le vittime del disastro di Addis Abeba. Li aiutavano a casa loro, in Africa, senza detestarli a casa propria, in Italia.