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Portatori sani di memoria: i Diari di Pieve Santo Stefano

Antonio Cocco, detto Toni, ha solo diciott’anni quando scappa di casa, nel 1952. La mattina del 24 maggio, dopo un’interrogazione andata male, lascia con un amico la sua casa di Venezia, in fondamenta del Soccorso a Dorsoduro e – dopo un viaggio rocambolesco – entra senza documenti in Francia attraversando le Alpi sopra Bardonecchia. Arrestato a Modane, è arruolato di forza, nonostante la giovane età, nelle fila della Legione Straniera (atto consentito dalla legislazione francese dell’epoca che prevede l’ingaggio di diciottenni stranieri, anche senza consenso paterno). È l’inizio di una storia faticosa e ricca di colpi di scena: Toni spedisce alla famiglia una cartolina da Marsiglia, prima di essere imbarcato per l’Algeria. Poi, dal 18 giugno – dopo aver cercato di tenere un diario che i commilitoni usano invece come carta igienica – comincia a scrivere lettere (al padre, alla madre, agli otto fratelli, agli amici), prima dall’Algeria, poi dall’Indocina. Non si fermerà, in una lingua sempre più densa di francesismi ed espressioni gergali, fino alla morte, avvenuta nel 1954 durante la battaglia di Dien Bien Phu, nella Ridotta Isabelle, l’ultimo caposaldo francese conquistato dall’esercito dei Viet Minh. Sono missive drammatiche, scritte anche in trincea, che raccontano del duro addestramento, del carcere punitivo a cui il giovane Cocco, sofferente d’asma, viene sottoposto; del tentativo di fuga fallito, del desiderio di tornare a casa: 134 lettere, conservate dal padre Luigi che – attraverso canali governativi e diplomatici, tenta invano di riportare il figlio in Italia ed avvia una vertenza con la Francia sulle regole di arruolamento nella Legione.

L’epistolario di Antonio è divenuto un libro interessante, edito da Terre di mezzo, grazie al Premio Pieve Saverio Tutino di cui ha vinto l’edizione 2017, con la prefazione dello storico Umberto Gentiloni Silveri e l’introduzione di Gianluigi Cortese. In filigrana, si colgono tematiche e diversi piani di lettura; innanzitutto l’arruolamento forzoso di tanti italiani nella Legione Straniera (curioso sistema per regolamentare l’immigrazione in Francia, talmente noto nell’Italia postbellica da essere ripetutamente portato all’attenzione della stampa e della politica: agli inizi del 1961, come ricorda Gentiloni Silveri, deputati del PSI e del PCI presenteranno diverse interpellanze parlamentari sull’argomento). Emerge poi la condizione socio-economica di una Nazione che si va ricostruendo, in cui dignità e pudore si accompagnano a tratti severi, e una bocciatura può apparire insostenibile. Ancora, attraverso le parole di Toni, proiettato suo malgrado in una realtà che non conosce, si colgono le caratteristiche e le contraddizioni della questione indocinese e della decolonizzazione. La battaglia di Dien Bien Phu – in cui Toni trova la morte – in posizione strategica tra il Vietnam e il Laos, segna la vittoria dei Viet Minh, il ritiro dei francesi e la divisione del Paese all’altezza del diciassettesimo parallelo. È il prologo della futura lunga guerra del Vietnam. Forse il giovane non è cosciente delle implicazioni militari e politiche, di portata mondiale, della sua vicenda; però coglie il pericolo, la paura e riesce – nonostante tutto – a stabilire rapporti umani importanti in quell’inferno. Così, la sua sfortunata storia rappresenta anche il tragitto dall’adolescenza ad una, sia pur precoce, maturità; una sorte di educazione

Antonio Cocco

sentimentale.

Se la famiglia non avesse scelto di affidare l’intero corpus delle lettere di Toni all’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano, in provincia di Arezzo, la sua vicenda sarebbe rimasta fra le memorie intime, dolorosa ed emblematica. Se a Saverio Tutino, classe 1923, partigiano, poi celebre corrispondente per “L’Unità” dalla Cina e da Cuba e cofondatore de “La Repubblica”, non fosse venuto in mente d’inventare un Archivio per i diari degli italiani, nel 1984, di Antonio Cocco e delle tante altre storie che compongono la nostra memoria collettiva si sarebbero perse le tracce.

Invece quell’Archivio Diaristico Nazionale, nato a Pieve Santo Stefano, piccolo centro della Valtiberina toscana, esiste da trentacinque anni. Sotto forma di diari, memorie, epistolari le storie arrivano a centinaia, ogni anno, per essere lette, schedate, digitalizzate e messe a disposizione per ricerche, studi, sceneggiature, articoli. Un vero e proprio presidio a salvaguardia della memoria, che è divenuto negli anni fonte d’ispirazione per il cinema, il teatro e altre forme d’arte (come l’iniziativa di collaborazione fra l’Archivio dei Diari e la Sacher Film di Nanni Moretti e Angelo Barbagallo, nel 2001, che ha visto sette registi realizzare altrettanti film-documentari tratti da storie dell’Archivio di Pieve: I Diari della Sacher, appunto). In quell’angolo di Toscana, tra l’Umbria, le Marche e la Romagna, il Paese dei diari (come ormai si definisce Pieve Santo Stefano, tanto da inserirlo nella toponomastica ufficiale) conta circa tremila e trecento abitanti in carne ed ossa e ottomila abitanti di carta. I testi inediti partecipano annualmente alla selezione del Premio Saverio Tutino.

«Cercate nelle soffitte e nei cassetti i carteggi d’amore dei nonni, le lettere d’emigrazione, i taccuini dalle trincee di guerra, il diario di un antenato»: è l’appello che l’Archivio rivolge a chiunque possieda uno scritto inedito, da inviare in originale o in copia, scegliendo di depositarlo o farlo concorrere al Premio. La selezione del materiale è affidata ad una Commissione di lettura composta da persone del luogo che – durante tutto l’anno – legge e discute i testi fino a selezionare (fra i cento ammessi al concorso) la rosa degli otto finalisti, da affidare al parere della Giuria nazionale, di cui ha fatto parte anche Natalia Ginzburg.

«In ogni storia trovi sempre un pezzo della tua vita» – spiega Natalia Cangi che, della Fondazione Archivio Diaristico Nazionale, è la direttrice organizzativa – Io non ho incontrato subito Saverio Tutino, ma sono stata presa dal desiderio di conoscere le storie. Da lettrice accanita, mi sono persa nelle memorie degli altri. E non ne sono più uscita. Perché, se ci credi, se credi allo stupore, alla meraviglia di ciascuna vita, al rigore e alla vivezza di ogni trama, devi vivere questa esperienza fino in fondo». Nel racconto, Cangi quasi si commuove, quando ricorda il lenzuolo matrimoniale su cui la contadina Clelia Marchi – dopo la perdita del marito Anteo – avendo finito la carta, scrive la propria storia d’amore. Ora quell’opera, memorabile e commovente, è divenuta simbolo della raccolta di Pieve. Oppure la storia del cantoniere siciliano Vincenzo Rabìto, semi-analfabeta, che si rinchiude in una stanza per imparare ad usare la macchina da scrivere, raccontandosi in oltre mille pagine. Ancora, la vicenda di Orlando (Lallo) Orlandi Posti che affida la propria memoria a messaggi clandestini, scritti dal carcere di via Tasso a Roma, prima di essere fucilato alle Fosse Ardeatine.

È «il fruscìo degli altri», come lo definiva Tutino, a coinvolgere e significare molto di più. Durante un recente convegno internazionale, promosso con l’Archivio Storico della Presidenza della Repubblica, l’Archivio Diaristico Nazionale ha presentato, ad esempio, i risultati di una vasta ricerca, condotta su fonti inedite, che mettono in risalto lo squilibrio della rappresentanza di genere nelle istituzioni italiane, dalla nascita della Repubblica ad oggi. Già da anni, inoltre, con il progetto DiMMI – Diari Multimediali Migranti (sostenuto dal 2012 dalla Regione Toscana, in collaborazione con realtà operanti nei settori dell’accoglienza, integrazione ed inclusione dei migranti), custodisce anche la memoria di quanti arrivano nel nostro Paese o già vi abitano, provenendo da altrove.

Sono tutti loro – operatori dell’Archivio, abitanti lettori di Pieve, amici e sostenitori – quei «portatori sani di memoria» di cui parla l’attore ed autore teatrale Mario Perrotta; l’artista, considerato uno dei più importanti della nuova generazione italiana, ha scritto nel 2009 Il paese dei diari (edito da Terre di mezzo), dedicato all’esperienza dell’Archivio, facendone poi uno spettacolo. Il suo libro ha ispirato anche la nascita del Piccolo museo del diario, inaugurato nel dicembre 2013: appena quaranta metri lineari, suddivisi in quattro spazi. Piccolo per le misure, ma soprattutto perché intimo, raccolto. C’è chi, come Walter Veltroni, l’ha definito «il museo più importante del mondo». Lo studio multidisciplinare milanese dotdotdot, un gruppo di giovani creativi, ha studiato a fondo l’Archivio per poter realizzare un percorso sensoriale interattivo molto coinvolgente per i visitatori: ci si trova davanti a cassetti, oggetti parlanti, ticchettii, suoni ed immagini che arrivano dal passato a rappresentare la vita. Basta aprire un cassetto, uno a caso, e una voce inizia a raccontare, prende per mano ed accompagna nella storia di qualcun altro; a narrare, nel Piccolo museo, sono Marco Paolini, Simone Cristicchi, lo stesso Mario Perrotta, Maya Sansa, per citarne solo alcuni. I dotdotdot hanno creato anche una valigia di storie, una specie di museo trasportabile che – sfruttando l’idea di uno schedario suddiviso in ordine alfabetico – consente di far conoscere le storie di Pieve al di fuori dei confini del paese. Ettore Scola, venuto nel 2014 per ritirare il Premio Città del diario (indirizzato, dal 2005, a personalità della cultura), ha commentato: «Di archivi e di musei così ce ne vorrebbe uno in ogni città d’Italia». Per essere, tutti assieme, portatori sani di memoria.