Come ci piaceva Pedro Almodòvar negli anni Ottanta! Come ci piaceva questo giovane regista apparso dal nulla a mostrare l’incanto di una scandalosa modernità! Ci emozionavano le sue donne sventate e dolcissime, il sesso sbandierato e senza confini, la coraggiosa fragilità dei suoi personaggi. E ci deliziavano le battute fulminanti, la sua ardita cinepresa, i colori nitidi come il sole e l’ombra che si alternano dentro il catino ribollente di una Plaza de toros in agosto.
Questo folletto castigliano, nostro coetaneo e fratello, era per noi la Spagna. Abbiamo cominciato ad amare la Spagna quando siamo inciampati per puro caso nella sarabanda di Pepi, Lucy, Bom y otras chicas del montòn. In quegli anni, guardare Madrid da Roma era come spiare da un polveroso sgabuzzino una terrazza soleggiata o una luminosa camera da letto. Così vicini e pure così lontani: l’Italia bigotta del declino democristiano contro la Spagna insonne della movida, gli intrighi dei palazzi romani e la Moncloa socialista, il doroteismo al tramonto e il sole nascente del felipismo.
Tutti i temi di Almodòvar erano squadernati fin dai primi film: la donna, la donna, e ancora la donna, il sesso, il sesso e ancora il sesso, la madre, la madre e ancora la madre. E poi la nevrosi della grande città e la nostalgia della provincia come una innocenza perduta. C’era qualcosa di profondamente nostro nelle mirabolanti avventure metropolitane delle donne al limite di una crisi di nervi. C’era uno sberleffo trasformato in dolcezza nell’intreccio iper-poliziesco di Carne tremula. C’era amore puro e pura compassione nella morte incombente che aleggia in Parla con lei.
Anche Pedro ha poi fatto la sua strada. Film sublimi e pellicole non riuscite, ogni tanto l’ispirazione e più spesso la scorciatoia del mestierante. Oggi, a settanta anni, il vecchio folletto è tornato a casa da Cannes con un pugno di mosche. Meglio, molto meglio di una statuetta alla carriera che lo avrebbe rinchiuso nel museo dei venerati maestri. Il suo Dolor y gloria è stato per lo più sbertucciato dalla critica. Eppure, se ami Almodovar non puoi non amare questa ultima opera. Anche qui il regista mette in fila tutte le sue statuine: la madre amata e la donna amica, l’amore omosessuale e la droga, il villaggio dell’infanzia e la grande città appena intravista, lo schermo del cinema e il palcoscenico teatrale. Ma il tempo è passato, è passata la vita, e un impalpabile velo di mestizia si stende sui personaggi. La luce, come al solito pura, appare bagnata nel color seppia delle vecchie foto. Così si appannano di nostalgia le passioni, una volta fiammeggianti.
Al centro, il corpo piegato dal dolore e dalla malattia dell’intellettuale che non sa più creare, circondato dal coro dei vecchi amici, amanti, compagni di strada. Frocetto, lo chiama l’antico rivale: ma è più una carezza che un insulto. E la rinuncia del vecchio regista è un addio alle armi del corpo, ma non dell’anima. Quest’uomo – intendo Almodòvar – riesce ancora a stupire. Arrivi alle ultime battute, ai titoli di coda, e ti rendi conto che tutti i suoi personaggi sono persone buone. In questi tempi di cattivismo ostentato, di violenza pubblica e privata, ci vuole coraggio a far trionfare i buoni sentimenti con un film banalmente, ma orgogliosamente buonista. Del resto, la leggerezza è nella natura profonda del regista spagnolo, che certo in modo inconsapevole, ma con istinto sicuro fa sua la riflessione di Bertolt Brecht: «Pieno di compassione vedo/le gonfiate vene frontali/segno di quanto è faticoso/essere cattivo».
L’articolo di Flavio Fusi è uscito anche su Succedeoggi.