EUROPA UNITA ITALIA LUOGHI

Chi è l’Italia e dove sta andando?

Chi è l’Italia e dove sta andando? Lo spiega un intero fascicolo di “Limes” che Francesco Morosini di ”Ytali", una delle riviste con cui TESSERE ha avviato una partnership, ripercorre sintetizzandone i tanti interrogativi a cui i cittadini (e chi li governa) farebbero bene a cercare delle risposte.

Ytali“, una delle riviste con cui TESSERE ha avviato una collaborazione che aiuti a diffondere idee e conoscenze ad un pubblico più vasto, ha pubblicato, a firma di Francesco Morosini una recensione del fascicolo di “Limes” dedicato all’Italia, col titolo Paese strategico che rifiuta d’esserlo. La ricchezza di argomenti che possono aiutare a comprendere chi siamo e dove stiamo andando merita di riproporlo per intero.

FRANCESCO MOROSINI *

“Limes”, rivista che ha il merito di aver diffuso l’interesse per le tematiche geopolitiche nel nostro Paese, titola il suo quarto fascicolo del 2017: A chi serve l’Italia.

Il quesito – spiegato dal sottotitolo, che così recita: Le cinque ragioni per cui contiamo. Lo scontro USA-Germania rischia di spaccarci. Come superare il complesso di Peter Pan – è chiarito nelle sue implicazioni dall’incipit dell’editoriale. Che, infatti, tracciando una sorta di filo rosso accomunante la gran parte degli interventi pubblicati in questo volume di “Limes”, afferma, paradossalmente: «L’Italia è un paese strategico che rifiuta di esserlo». Per poi subito aggiungere un’amara verità storica; ovvero che «dopo più di un secolo e mezzo, il nostro Stato unitario resta un adolescente geopolitico. Puer aeternus, fragile e perennemente incompiuto, consegnato alle altrui scelte. Peter Pan della scena internazionale, in fuga da se stesso “perché ho sentito papà e mamma parlare di quello che sarei dovuto diventare quando fossi diventato uomo”. Anelante le irripetibili liturgie del tempo ordinato, quando gli assi cartesiani della guerra fredda ci assegnavano il posto a tavola, risparmiandoci di sceglierlo. O fantasticante armoniche Europe, in cui serenamente sciogliersi in fraternità con i vicini».

Insomma, l’editoriale pone la Penisola dinnanzi a una sfida che è decisiva; per affrontarla, l’Italia deve ripensare aspetti decisivi della sua cultura politica, a partire dall’ideologia illusoria – ma sulla cui base tende ad affrontare la propria politica estera (talvolta troppo vaticano-terzomondista; talaltra ortodossamente “bulgara all’eccesso” verso Washington) – della “fine della Patria”.

È tempo, di conseguenza, come con ragione sottolinea “Limes”, che l’Italia, per rispondere appropriatamente a questa sfida, prenda a ripensarsi come un soggetto politico statuale; dunque portatore di interessi nazionali propri e non, semplicemente, dedotti (com’era possibile fare al tempo della bipartizione USA/URSS della Guerra fredda) dal quadro di alleanze in cui si era inseriti. Cui aggiungere la piena consapevolezza che il nostro primario contesto di relazioni internazionali, cioè l’Europa, è, al di là dell’immaginario federalista, un’arena dove i vari Stati partecipanti lottano per costituirsi autonome sfere d’influenza sia nel Vecchio continente sia fuori: a riprova, l’alleanza franco/britannica, a nostro potenziale danno, in Libia.

Diversamente, la Penisola, come già lamentavano Machiavelli e Guicciardini secoli addietro, tornerà a subire passivamente l’influenza, come allora, delle Potenze d’oltralpe; cui aggiungere, data l’odierna realtà geopolitica, quella di Washington e di Mosca.

Altra cosa, invece, è riconoscere i vincoli posti dalle gerarchie di potenza. Ecco dunque quelle che paiono essere, seppure individuate con una lettura certo parziale e selettiva, le tematiche centrali caratterizzanti questo numero della rivista fondata e diretta da Lucio Caracciolo.

La preoccupazione prima pare quella di interrogarsi sull’esistenza, o meno, della capacità dello Stato nazionale italiano, a partire dalla classe politica per giungere alla più generale classe dirigente e agli apparati (a partire da quelli di sicurezza), ad affrontare le difficili prove glocali (provenendo sia dal Vecchio continente che dal mondo).

Cadute le illusioni legate alla distopia della “fine della storia” e della “società di mercato globale pacificata”, esse appaiono minacciose per la tenuta e la stessa unità del Belpaese. Cui aggiungere, come sottolinea l’editoriale, un aspetto che inquieta assurdamente altri più di noi, per il vero geopoliticamente piuttosto incoscienti; ed è che oggi la Penisola è «la quantità marginale che in caso di fallimento può determinare il collasso della “moneta unica”».

Ovvio, quindi, che la “questione Italia” sia all’attenzione delle cancellerie straniere timorose che le nostre crisi possano riverberarsi pesantemente su di loro. Tra questi, di certo, i “parenti serpenti” europei, gli USA e la Russia; ma anche la Cina, sicuramente preoccupata che un nostro scivolone dall’Eurozona possa creare uno tsunami finanziario globale; ma pure interessata alla nostra stabilità vedendoci – così gli interventi di Paolo Costa, Puntare su Venezia perché l’Italia sia al centro delle vie della seta; Sun Yanhong, Il senso dell’Italia per la Cina lungo la Belt and Road Iniziative) – come un potenziale approdo Mediterraneo delle rotte marittime Asia-Europa.

Pertanto, da molti degli interventi su “Limes” emerge la preoccupazione che l’Italia, sebbene dotata di buone risorse geoeconomiche, geopolitiche e geostrategiche, ciononostante possa divenire marginale rispetto ai processi decisionali internazionali, perfino giungendo a strappare la propria unità interna. E questo per l’incapacità di individuare con precisione i propri interessi nazionali. Anzi, è nostro difetto tendere spesso a concepirli nel modo meno nazionale possibile. La qualcosa vuol dire immaginarli come una variante, quasi vi fosse convergenza per legge di natura, di quelli del nostro maggiore alleato, Washington. S’aggiunga una certa prudente propensione ad “andare sottovento” rispetto a una Germania che, dopo l’unificazione, è sempre più “ingombrante”. Si tratta di un atteggiamento – meglio, di un paradigma di cultura politica – esagerato e pericoloso perché tende a “rendere invisibile” il paese che lo propone: così l’unica “voce” che conta appare essere quella dell’alleato maggiore.

Per l’editoriale di “Limes”, conseguentemente, «dobbiamo emanciparci dall’idea che il nostro interesse nazionale consista nel non averne, salvo aderire a quello, tra gli altrui, che ci pare prevalente. …. Vige da noi il curioso assioma per cui non possiamo permetterci di produrre strategia perché non siamo sufficientemente potenti. Vero il contrario: sono le grandi potenze a potersi concedere qualche distrazione, immergendosi in fasi di apnea progettuale governate con il pilota automatico. Noi, che non disponiamo delle loro risorse, siamo obbligati alla strategia. A pensare e ripensare il nostro posto nel mondo».

Purtroppo, ciò è reso più difficile dal fatto che, a complicare l’identificazione dell’interesse nazionale italiano, oggi pesi come un macigno il fattore immigrazione, anche per l’emergere di un irenismo valoriale apparentemente universalista ma sostanzialmente strapaesano (così l’editoriale, ma anche gli interventi di Massimo Livi Bacci, La demografia prima di tutto e di Bettina Biedermann e di Heribert Dieter, Euro e migranti, le ragioni del divorzio italo-tedesco). Né aiuta al riguardo, per lo stato emergenziale che implica, la posizione della Penisola come primo hub del Mediterraneo per le popolazioni in fuga dall’Africa (così l’editoriale; ma anche, nel numero del 7, 2016, Germano Dottori, Non sarà l’immigrazione a rilanciare l’Italia).

Tuttavia, la novità analitica proposta nella prima parte di questo numero di “Limes” è di legare il tema dell’individuazione dell’interesse nazionale a quello, come già accennato, della continuità dell’esperienza unitaria del Belpaese (decisivi, al riguardo, gli interventi di Dario Fabbri e Federico Petroni, Il limes germanico ferita e destino d’Italia, e del solo Dario Fabbri, Spaccata e ideologica, l’Italia tra Germania e Stati Uniti).

Vero, almeno in apparenza, il secessionismo ha perso molta della sua attualità (lo testimoniano le recenti innovazioni “nazionaliste” della Lega); tuttavia, la rivista propone una lettura geopolitica della situazione italiana attenta agli effetti sul Paese, a partire dal suo Nord, del probabile polarizzarsi dei rapporti tra Washington e Berlino (fenomeno inevitabile per la trasformazione della “piccola” “Germania di Bonn” nella nuova, per peso geopolitico, Germania unita). Nel senso che, per Fabbri e Petroni, c’è la possibilità che l’intenzione degli USA di «prevenire l’emergere di un egemone che in solitaria o in coabitazione possa dominare la massa eurasiatica, Washington valuta con notevole ostilità la creazione di una strutturata area di influenza germanica, a maggior ragione se simpatetica nei confronti della Russia» possa riaprire antiche linee di faglia geopolitiche italiche, avendo la Penisola strette interconnessioni sia con la Germania sia con gli States.

Il timore è che, anche per il sommarsi alla debole presenza di una visione condivisa del destino nazionale di altri fattori critici esogeni (monetari, immigratori), la storica faglia economica tra il Nord e il Sud della Penisola si trasformi qualitativamente in una “ferita” geopolitica (una sorta di novella linea gotica) micidiale per la continuità della Repubblica. Così le illusioni separatiste, oggi presenti ma allo stato latente, potrebbero trovare nuovo vigore riducendo i vari pezzi della frammentazione del Paese in “zattere di naufraghi” d’Europa. Fantapolitica? Magari; a ogni buon conto, questi di “Limes” sono degli esercizi analitici assai utili proprio per evitare il peggio.

Il Nord, “piuma geopolitica” senza il contrafforte dell’intera Penisola (sulle cui caratteristiche antropologiche e sociali, specie del suo Est intervengono Giovanni Collo, Benvenuti nel Veneto, Texas d’Italia e, con un’interessante lettura della questione nazionale attraverso la lente della sua contraddittoria costituzione fiscale Stefano Bruno Galli, La questione settentrionale nell’Europa in frantumi), si troverebbe relegato a colonia esterna della catena del valore industriale di Berlino e della finanza di Parigi; mentre il Sud, per l’accentuarsi di fenomeni già in corso, accelererebbe la sua decrescita demografica ed economica.

Certo, almeno la Terra del Gattopardo (Piero Messina, La Sicilia come hub dell’intelligence a stelle e strisce), continuerebbe a essere «una sorta di piattaforma atlantica per monitorare gli interessi della NATO e degli Stati Uniti»; ma sempre – vale per la Sicilia come per l’intero Meridione – in condizioni di sovranità ben più limitata di quella godibile permanendo l’unità nazionale.

Insomma, il secessionismo italico, in primis quello nordista, avrebbe un esito differente da quello dei suoi proponenti. Fabbri e Petroni individuano la forza delle posizioni secessioniste del Nord nella forte integrazione economica all’area germanica (soprattutto di quello che un tempo era il Lombardo-Veneto, ma con più ampie irradiazioni geoeconomiche); ma anche nella supposizione d’essere parte integrata di quel mondo. Pur tuttavia, al contempo, vi vedono un abbaglio. Determinato dalla credenza illusoria che si tratti solo «di allacciarsi a una mera area di sviluppo commerciale», quasi potessero esistere degli spazi interstatali estranei ai rapporti di forza ed ai giochi di potere delle potenze in campo. Insomma, il sogno secessionista ricondotto ad una dinamica neocoloniale.

Infine, nell’intervento del solo Fabbri c’è il richiamo alla «consapevolezza che in passato il territorio nazionale è stato frazionato dall’ingerenza di potenze esterne. Pressoché mai dall’arbitrio degli italiani»; che poi è il preoccupato invito a considerare come tutto ciò possa ripetersi, seppure in forme diverse dalle precedenti. La sottovalutazione di ciò, per l’autore, null’altro è che la sottovalutazione della questione nazionale e della conseguente elaborazione di un forte pensiero su identità ed interessi di essa. Una carenza che si afferma nel Secondo dopoguerra, oltreché per effetto della sconfitta, per il radicarsi di una precisa matrice culturale di cui è parte, sostiene Fabbri con ragione, l’europeismo ideologico con la sua falsa coscienza del superamento degli Stati nazionali; e del quale, infatti, il secessionismo (presente in molti paesi) oggi è l’immagine speculare. Così illusoriamente le classi dirigenti del Belpaese hanno ritenuto, mitizzando il Manifesto di Ventotene e l’incardinarsi fin da subito dell’Italia nel processo di costruzione europea, che le forze profonde dei rapporti geopolitici, relegate al passato, avessero finito d’agire; e che, coerentemente a tale visione, cessasse per incanto ogni politica di potenza virtualmente destabilizzante della Penisola. Il risveglio rischia di essere pessimo.

L’ideologia europeista postulava, e postula, un naturale sciogliersi dello Stato nazionale nell’Unione, la nuova entità politica. Questo, con la relata idea della “fine dei confini” – variante minore delle molte “fine della storia” da ultimo sviluppate dal tardo hegelismo di Kojéve e Fukuyama – ha portato, con la sottovalutazione di come le mosse geostrategiche delle Potenze maggiori possano incidere sia sugli equilibri sia sui sentimenti di appartenenza nazionali interni alle Potenze minori, a una legittimazione teorica (la fine dello Stato nazionale, appunto) ex ante dei movimenti secessionisti. Insomma, pregio di questo intervento, oltre a sottolineare la necessità che l’Italia eviti di essere assieme terreno di confronto e pedina altrui (di Washington e Berlino; ma non solo), sta nell’aver individuato un metodo di analisi realisticamente attento – ma è un pregio generale di “Limes” – all’essenza, cioè al suo asse gravitazionale, della politica: i rapporti di forza, però proiettati nello spazio geopolitico. Cosa che analiticamente consente uno “sguardo più lungo” di quello schiacciato sull’apparenza dell’immediato.

Degno di nota, poi, il fatto che “Limes” affronti il tema della costruzione dell’interesse nazionale italiano anche partendo da altre prospettive rispetto a quelle fin qui analizzate. Una è quella finanziaria (Alessandro Aresu, Una repubblica fondata sul risparmio); poi la militare (Carlo Jean, A che ci servono le Forze armate). Quanto alla prima, il legare assieme finanza e interesse nazionale è poco usuale. Ma assolutamente importante, quantomeno nei due aspetti che Aresu considera decisivi: l’educazione finanziaria (acquisire, utilizzare e diffondere a vari livelli della comunità il know how in materia) e, conseguenziale a ciò, la stretta connessione tra risparmio ed investimento.

Sotto entrambi i profili Aresu ha ragione da vendere quando ricorda che una manifattura senza finanza è “disarmata” e, pertanto, destinata a divenire terreno di razzia altrui; e che appunto per questo l’ideologismo che pretenderebbe di separare finanza ed economia reale è sciocco e pericoloso.

«Se vuoi i poli del lusso, del farmaceutico, dell’alimentare, del packaging devi avere anche finanza. Altrimenti li fanno gli altri e ti comprano, un pezzo per volta, mentre tu fai convegni sul neoliberismo»: così, con le parole di Aresu stesso, si coglie bene il nesso che lega finanza e interesse nazionale. Tant’è che, in una prospettiva di geopolitica della finanza, merita attenzione l’appendice A chi interessano le banche italiane perché ben chiarisce come siano reciprocamente legati finanza, potere e, appunto, interesse nazionale.

L’affermazione dell’interesse nazionale, naturalmente, passa pure, anche per una media potenza come l’Italia, per l’hard power, cioè il fattore militare. Infatti Jean, affrontando la “questione sicurezza”, ricorda che, realisticamente, l’Italia deve rinunciare, in ragione alle sue oggettive possibilità, al sovranismo strategico; e che lo stesso vale per l’idea di una difesa europea autonoma da Washington, ma senza abdicare, pur con questi limiti, ad un minimo di tutela delle nostre priorità (per un punto di vista critico sui rapporti USA/Europa/Italia l’intervento di Fabio Mini, USA-Italia, comunicazione di servizio). Insomma, la NATO sarà pure un tipico caso di organizzazione sopravvissuta alla sparizione della propria ragione sociale istitutiva (il comunismo marca URSS); tuttavia, finché rappresenta il legame interatlantico, essa resta il cardine della difesa europea, e l’Italia deve prenderne realisticamente atto. Insomma, per Jean l’interesse nazionale italiano è nell’essere atlantici.

Due le ragioni: la prima è che l’Europa è troppo un’arena di Stati in competizione reciproca per essere, come soggetto politico, un attore militare autonomo. Poi perché, essendo le armi nucleari una componente decisiva della sovranità militare, il concetto di Europa strategica fu insabbiato «nel 1958 allorquando il generale de Gaulle decise di affossare l’accordo Taviani-Strauss-Chaban Delmas sulla costruzione della “Bomba europea”, ovvero italo-franco-tedesca».

Cambierà, con tutte le conseguenze geopolitiche che ne deriverebbero, col neo presidente di Francia Macron? Allo stato dei fatti, a ogni modo, resta la necessità della relazione con Washington, che all’Italia ha sempre garantito, pure per contrappeso agli altri alleati, un ruolo di prestigio sia dal lato politico sia da quello militare della difesa. In definitiva, le forze armate italiane, con la loro partecipazione a varie missioni internazionali, sono state lo strumento, “moneta di scambio” per dire col generale Jean, per garantire la presenza internazionale dell’Italia. La politica, in sede di pianificazione militare, dovrebbe assegnare le risorse su questa base, a tutela dell’interesse nazionale.

Ed è proprio quest’ultimo, ma rapportato alle possibili tensioni interatlantiche e alle loro conseguenze geopolitiche, a costituire, almeno per questa recensione, il senso profondo di questo volume di “Limes”. Naturalmente, si tratta di una visione parziale; tanto è vero che altri interventi, così arricchendo questo numero della rivista, mostrano altre visioni del ruolo e degli interessi dell’Italia. Resta che l’Italia “serve”; e che ha grandi sfide dinnanzi a sé; e che, perciò, molti sono gli interessi nazionali in gioco. Ben sapendo che senza la percezione di essi, anche se articolati con accenti diversi, la politica è solo rissa verbale.

17 agosto 2017

* Francesco Morosini è professore a contratto di Istituzioni di Diritto pubblico presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. È autore di pubblicazioni in tema di vigilanza bancaria, fondazioni di origine bancaria, contratti bancari, legislazione elettorale. L’ultimo suo saggio è Banche centrali e questione democratica. Il caso della Banca Centrale Europea (BCE). Ed. ETS. Collabora con i quotidiani locali del Gruppo l’Espresso e con ytali.

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