LUOGHI VIAGGI

La vastità delle Americhe

"Vastità" e "Americhe", due parole per disegnare un territorio immenso, non solo per culture e modi di vita, che va da un oceano all’altro, tra fusi orari e fasce climatiche diverse nella stessa confederazione di Stati. Ma perché segnato anche da immense contraddizioni, tra opulenza inimmaginabile e abissi di povertà intollerabili

Ventidue giorni intensi, migliaia di miglia percorse in aereo, in macchina e un buon gruzzolo anche a piedi. Quattro amici da una vita per la prima volta nel Paese che più di altro ha suscitato nella loro vita rabbia e speranze. Da Milano a Chicago e poi da Salt Lake City a San Francisco, passando per i canyon e i parchi naturali più famosi dell’Ovest degli Stati Uniti. Che ci è sembrato dell’America?

Per doveroso rispetto delle fonti che mi impone la professione di una vita, il titolo parafrasa un libro letto tanti anni fa negli Oscar Mondadori: Che ve ne sembra dell’America? L’autore, William Saroyan, racconta in forma di bozzetto la San Francisco vista da un armeno lì approdato nella prima metà del secolo scorso. Una raccolta di piccole storie d’emigranti che Elio Vittorini titolò in modo tanto felice e che ebbe uno straordinario successo.

Ne è valsa la pena? Ovviamente sì perché non c’è viaggio che non porti conoscenza, stimoli, emozioni e il senso dell’altro da noi.

Provo a mettere in fila qualche fugace riflessione, con tutti i limiti imposti dalla condizione di un turista che osserva, non ha fonti che possano trasmettere conoscenze essenziali alla vita quotidiana di qualsiasi Paese. Già, le fonti che sono state per una vita i ferri del mio mestiere di giornalista, gli elementi indispensabili per capire nel profondo le complesse dinamiche che regolano una società, tanto più se vasta e differenziata come gli Stati Uniti, immenso territorio non solo di culture e modi di vita che va da un oceano all’altro.

Ho scritto società. In realtà è evidente che “le” società di questo immenso assemblaggio, sono tante, sparse in una vastità profonda che fa degli Stati Uniti “le” Americhe, sfidando il comune riferimento al Sud del Continente. Già, la vastità. Immensa, profonda, talvolta accecante nei suoi bagliori che rende questa terra un luogo pieno di fascino. Una sensazione che non si avverte solo nelle gole del Grand Canyon a picco sul Colorado, nella maestosa città imperiale che è la Monument Valley, nel biancore accecante delle distese salate e nelle depressioni della Death Valley, nella vivida luce delle praterie dell’Antelope, percorse in una giornata con il broncio e infine liberate da un cielo che si squarcia e lascia spazio a meravigliosi colori mentre i bisonti escono allo scoperto. Colori che, stratificati, raccontano, come mai in altro luogo, miliardi d’anni di vita del pianeta. Si trova la vastità dove meno ci si aspetta, anche nelle città popolose come Chicago o San Francisco. Senza dimenticare Las Vegas, il luogo più triste che abbia mai visto, anche per una sola notte.

La vastità
Vastità che dissolve i rumori lungo le coste del Pacifico, spiagge popolate di alghe di enormi dimensioni con rilievi nodosi che offrono uno spettacolo inquietante, un monito, come se una sentinella dalla forma oscena avvertisse che sei entrato in un altro regno; ti è data facoltà, ma devi rispetto.
Vastità che è orizzonte costante, ma che non è mai solo e banale concetto del grande. Vastità che è sistema di vita, di relazioni.

Vastità sono i campi che scorrono a fianco della Sierra Nevada dove le mandrie si disperdono in chilometri e chilometri e ti chiedi come e quando verranno ricomposte e condotte, a bordo dei Pickup o con altro mezzo, nelle fattorie che sono solo un punto in lontananza. Già, come si vive laggiù, giorno dopo giorno? Che sembra a loro dell’America?

Vastità sono quei lunghi convogli, trainati da più motrici che tagliano la Route 66. Ti chiedi che hanno da scaricare, chissà in quale stazione di quest’arteria deserta che un tempo ha rappresentato storia e leggenda della conquista dell’Ovest. Non certo nei villaggi dove tutto è gioiosamente finto: dalle carcasse delle auto ai locali, dai bar con un orrido caffè, ai saloon. L’unica cosa vera sono gli store dove consapevolmente si cammina indietro nel tempo e si acquista la nostalgia della beat generation. Dischi in vinile, giubbe, jeans, targhe, al prezzo di qualche dollaro.
È una recita a soggetto, ma ha l’immenso pregio che nessuno bara, comprese le folte barbe bianche che a fatica salgono a cavallo di fiammanti Harley Davidson. Lo fanno con gioia e pare con ironia, mentre noi meschini nascondiamo i sorrisi dietro la macchina fotografica: fuck you, caro coetaneo made in Italy.

Vastità sono i rettilinei che paiono senza fine, interrotti non solo da finti scenari, come quelli della appena ricordata Route 66, ma anche da autentici, piccoli centri, tutti uguali. Una strada dritta con un limite di velocità da bradipo, dove trovi lo store, l’ufficio postale, il luogo di ritrovo e due o tre anime, non di più.

Vastità sono gli immensi campi da golf del 17 Mile Drive tra Pacific Grove e Pebble Beach non lontano da San Francisco che scendono a precipizio sull’oceano. Diciassette miglia di una cascata di dollari: solo la tenuta del verde costa una fortuna. È il tributo alla smisurata ricchezza, come si conviene a un Paese dove le differenze sociali sono una vastità che, se letta all’ingiù, si chiama abisso.

Vastità che si coniuga con la differenza tra chi ha, chi ha poco e chi proprio nulla. Non è una grande scoperta che i piani intermedi siano stati eliminati da tempo e non solo dall’ossigenato Trump.

Lo dicono gli eleganti grattacieli di Chicago e le signorili dimore di san Francisco; lo dice il popolo che frequenta i mezzi pubblici, per lo più povera gente, treni o bus che siano. Te lo spiega una città come San Francisco, insuperabile centro di bellezze e contrasti. È vero, le piante delle grandi città degli Stati Uniti paiono fatte in carta carbone, con quelle reti di vie ortogonali numerate, ma la similitudine lì si ferma. Poi ciascuna reca le proprie caratteristiche, impronte di natura, costruzioni, condizioni sociali. A Chicago è il grande lago che diventa fiume in città; a San Francisco è lo scatenato ottovolante dell’infinito saliscendi che si fa colore e rumore con la cable car che trascina, con rumore di ferraglia, ma con incedere sicuro, i tanti turisti e i pochi nativi e poi li fa precipitare sul Golden Gate, straordinaria prova di forza e d’ingegno della prima metà del secolo scorso. Su e giù, non c’è tempo per stare in piano, non solo a San Francisco. Non c’è spazio che basta e chi non sta in equilibrio cade, con un tonfo e vive per le strade, senza distinzione di quartieri. Persino nella celeberrima Castro, la via simbolo della libertà sessuale, che copre i suoi passaggi pedonali con i colori dell’arcobaleno, puoi trovare tra il pertugio di una casa e l’altra, chi vive di stenti. Sono in tanti, un vero esercito all’addiaccio, sovente in condizioni che paiono oltre il degrado, complici sostanze mal tagliate, che hanno perso tutto, anche il pudore, un lusso da sciogliere nell’alcol.

A proposito di pudore, resta un’immagine di San Francisco. Una giovane donna di colore esce con quattro figli appresso da un luogo che presumo sia un ufficio pubblico, non meglio specificato. I bimbi, in scala, hanno dai quattro anni in su, almeno così pare. Urla con forza tale che anche lo scriba ignorante traduce: “Se tu mi porti rispetto, io ti porto rispetto; ma se non mi porti rispetto io non ti porto rispetto” e a seguire un inequivocabile gesto d’insulto, rivolto a chissà chi, unito a parole intraducibili, ma di palese significato.

Le Americhe
La sua parte più gentile e cordiale che ti aiuta sempre, nelle pianure senza fine e nelle città affollate, a trovare o ritrovare la strada, come se ti dicesse: che problema c’è? Siamo tutti viandanti, qui per caso;

l’America che non ti guarda mai per come sei vestito, forse un antico riflesso dei gentili nativi, o ereditato dalle genti europee che lasciarono le loro terre per epidemie, come gli irlandesi, per arrivare qui, spinti dal bisogno;

l’America di una signora, tra i grattacieli di san Francisco, bardata di un nutrito sfoglio di coperte, che si appresta ad affrontare la notte obbedendo a un rito che ci piace pensare abituale. Da monte di povere cose spunta una piccola luce e, udite udite, un libro. La prima cosa sciocca che viene in mente è: che cosa mai leggerà? Preferiamo non saperlo e solo augurarle che la notte le sia propizia e la lettura di sollievo a mente e spirito, viatico di un nuovo giorno carico di una qualsivoglia forma di riscatto. Sappiamo bene che non è vero, ma sperarlo non costa nulla;

l’America di un giardinetto sempre a san Francisco, un fazzoletto di verde (che strano, non il verde, ma il fazzoletto, qui dove tutto è extralarge!). È il pomeriggio del sabato, bimbi e adulti si mischiano tra giochi e chiacchiere, intorno a una statua di ferro di una donna bardata da mille oggetti. Poco lontano un grande bar-ristorante produce giganteschi panini in serie, per una folla che si fa via via più numerosa. Una scena che potrebbe riprodursi in molte città del mondo, forse la meno americana, se non fosse per quel pallone da football che il bimbo insegue con il naso all’insù, verso il cielo, lanciato dal padre tra una chiacchiera e l’altra con gli amici.

Anche questa è America, una delle Americhe. Scegliere è impossibile. Il pacchetto si acquista per intero. Prendere o lasciare.