DIALOGARE IN PACE ITALIA LUOGHI VISIONI

Milano, dove un tempo c’era…

Milano, viale Fulvio Testi. Dove un tempo c’era la Breda, il palazzo de “l’Unità”, una latteria… Ci passa un cronista. Osserva, ricorda, riflette. Anche sulle buone maniere. Scorgendo l’altro nel nostro orizzonte.
Milano, viale Fulvio Testi, 1960
Foto: flickr.com

È una grigia mattina di novembre e le nubi sopra Milano non ne vogliono sapere di lasciare spazio al cielo. A proposito, sarà pur vero, caro don Lisander, che il cielo sopra Milano è così bello quando è bello, ma questa cortina ininterrotta color grigio scuro mi mette un po’ di tristezza.

Certo, se continuo a camminare con la testa rivolta all’ingiù, l’asfalto è grigio, non è che la prospettiva migliori. È così che rallento.

Da quanto tempo non mi capitava di passare da queste parti? Trent’anni?

La cortesia chiestami da un caro amico mi ha spinto sin qui. Anche il lungo viale Fulvio Testi, porta d’ingresso cittadina tra le più importanti, a quest’ora di mezza mattina, ha poco traffico (si fa per dire).

Un chilometro più in là, ho trascorso alcuni anni tra i più belli della mia vita, una vita fa, nel palazzo de “l’Unità”. Da quando lo hanno demolito, non mi va di passare. Anche stamane, che l’incombenza mi concedeva ampi margini.

Così alzo la testa e mi tolgo il cappello, alla faccia della pioggerella che infastidisce. Mi par di rammentare. Sì, lì c’era la manifattura tabacchi. E là, che c’era là, nella parallela? Le case a proprietà indivisa, fiore all’occhiello della sinistra milanese.

Basta, sennò diventa una litania di ricordi. Insomma, una lagna.

Il centro sperimentale di cinematografia è una splendida realtà d’oggi. Sarei sciocco a negarlo. Bene così.

Ritorno sui miei passi. In tempi brevi l’incombenza è assolta.

Non resisto alla tentazione di attraversare il viale e arrivare là dove c’erano le portinerie della Breda. Di fronte c’era un bar-caffè, meglio una latteria, secondo una tradizione tipicamente milanese dissoltasi già negli anni Ottanta del secolo scorso.

La latteria, come la Breda, ovviamente non c’è più.

Mi resta il ricordo di un locale accogliente nel quale entrai emozionato alle sei del mattino, con il compito di “far parlare gli operai”. Fui colpito da lunghe file di bicchieri e tazze: la prima di grappa e vino, la seconda del caffè. I rituali di chi entra e di chi esce, di chi finisce e chi inizia il turno, accompagnati da un saluto, da mani che si sfioravano nel passaggio di testimone. Mi colpirono, più ancora delle parole, quei gesti minimi, solidali.

Mi viene da pensare che ci sono riti, come quello ricordato, che non è possibile riesumare, ma altri che andrebbero tramandati, nelle forme d’oggi. Nell’odierna orgia di villania eretta a sistema, siano aperte le porte ai rifondatori della gentilezza, ai seminatori di condivisione.

Tutti dovremmo scrivere e lasciare belle storie alla città. Ognuno la sua: una via indicata a chi non sa dove dirigersi, un parco tenuto pulito con piccoli gesti di grande civiltà, la mano tesa a chi è in difficoltà.

Storie minime che il mio occhio vede sempre più spesso svanire entro un breve orizzonte.

Ciò accade anche perché stiamo sterilizzando le relazioni umane. Gli strumenti meravigliosi del presente, sui quali siamo chini tante ore del giorno, non devono estendere un velo d’anestetico sull’agilità, la freschezza, gli scatti dell’intelligenza, la fantasia della mente.

Perciò avverto un fastidio crescente nei confronti di chi attacca gentilezza e condivisione; chi usa linguaggi volgari contro coloro che sono in cammino, pur con i loro limiti; chi pretende che l’ignoranza sia eretta a sistema così da ottenere un lasciapassare eterno per la propria.

Le buone maniere sono le officine del fare e implicano uno sforzo tanto semplice quanto titanico: mettere l’altro nel proprio orizzonte.