ATTUALITÀ EUROPA UNITA IL PERSONAGGIO

L’onda lunga di Boris

Andrea Pipino, giornalista di "Internazionale", analizza in cinque punti gli scenari anche europei all'indomani della vittoria di Boris Johnson nel Regno Unito, tra vecchi errori e nuove incertezze
EPA-EFE/NEIL HALL

Una vittoria storica per i conservatori. Un riallineamento politico dopo dieci anni di governi deboli, coalizioni e parlamenti “appesi”. Era dal 1987 che i tory non avevano una maggioranza parlamentare di 38 deputati. E dal 1935 che i laburisti non conquistavano così pochi seggi, 203 per l’esattezza. Una riflessione in cinque punti per capire un voto che ridisegna il panorama della vita pubblica britannica e spalanca le porte alla Brexit dopo tre anni e mezzo di tentennamenti e incertezze.

Gli errori di Corbyn

In un sistema bipartitico come quello britannico le grandi forze politiche – quindi i conservatori e i laburisti – devono avere una vocazione maggioritaria. Se dimenticano questa semplice verità – come sembra aver fatto il leader del Labour Jeremy Corbyn – si condannano alla sconfitta. Moltiplicare gli iscritti, coinvolgere i giovani, aprirsi alla società non è bastato: bisognava conquistare un elettorato più ampio. E, come forse sapevano i deputati laburisti che nel 2015 hanno combattuto e perfino sabotato la sua nomina, Corbyn non è mai stata la persona adatta per un compito simile.

Con la Brexit che sembrava cosa fatta, nelle elezioni del 2017 ha incassato una dignitosissima sconfitta, aumentando di quasi il 10 per cento i voti rispetto a due anni prima e facendo parlare della rinascita di una nuova sinistra laburista. Ci è riuscito spostando il discorso dall’Europa alle questioni di politica interna. Forse a quel punto il partito avrebbe dovuto capire che quei quasi 13 milioni di consensi erano il massimo a cui il Labour corbyniano poteva aspirare. Stavolta, invece, l’operazione di ignorare la Brexit per parlare di economia e disuguaglianze non ha funzionato, perché dopo tre anni e mezzo di negoziati infruttuosi mettere la parola fine allo snervante percorso cominciato con il referendum del 2016 era davvero l’obiettivo prioritario per i britannici.

Poi c’è la questione della persona Corbyn. Le sue simpatie repubblicane e l’appoggio dato in passato ai nazionalisti irlandesi possono avergli alienato parte dei vecchi simpatizzanti laburisti nel nord dell’Inghilterra; e la riluttanza a prendere una posizione chiara sulle accuse di antisemitismo gli è costata l’appoggio della comunità ebraica e una dolorosa rottura con una fetta dell’elettorato urbano e progressista. Gli stessi elettori che non hanno apprezzato la sua incertezza sulla Brexit e il rifiuto a schierarsi apertamente per la permanenza in Europa.

Poi c’è la questione del programma: troppo lungo, troppo ambizioso e troppo radicale per essere credibile e convincere la maggioranza dei cittadini. Più che un manifesto elettorale, un progetto di lungo periodo per la trasformazione del paese. Per una convincente ed efficace piattaforma di sinistra forse poteva essere sufficiente promettere più tasse sui redditi alti, investimenti pubblici e un rilancio del servizio sanitario nazionale, magari anche la nazionalizzazione di aziende idriche e ferrovie. Ma la settimana lavorativa di quattro giorni, la confisca progressiva del 10 per cento dei titoli delle grandi aziende da distribuire ai lavoratori e la nazionalizzazione della banda larga hanno solo aggiunto confusione, offrendo il fianco a critiche più che sensate. Difficile pensare che simili idee fossero realizzabili in una legislatura. Tutti errori che la stampa, anche quella solitamente vicina ai laburisti, aveva individuato già prima del voto.

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