CRITICA SPETTACOLI

Il piano di Jarrett e le scarpe di Mennea

Lo sport non ha certo bisogno di elogi, tanto è amato. Ma strappato alla sua dimensione da tifo e da fazione, quando diventa fatica, sudore, determinazione, rabbia, dolore e poi gioia e riscatto, passione, perfezione e bellezza, allora c’è qualcosa di simile alla musica, alla poesia, all’arte: inizia a parlare un linguaggio universale.

Andrea Scanzi – Foto Marco Nicolai

L’elogio della bellezza dello sport si è preso la briga di metterlo in scena e, per così dire, cantarlo, Andrea Scanzi, giornalista, blogger, saggista, che sul tema ha scritto e detto tanto.

Eroi. Storie emblematiche di sport è il suo monologo che, da poco meno di un anno, gira per i teatri e le piazze italiane e che, nei giorni scorsi, è andato in scena nella suggestiva ed essenziale scenografia della Rocca aldobrandesca di Arcidosso, in provincia di Grosseto.

Smessi i panni del fustigatore di certa politica, Scanzi ha vestito quelli del narratore, regalando 90 minuti emozionanti e poetici attraverso le storie emblematiche di sette sportivi, ognuna fatta di successi e insuccessi, di grandi vittorie e di altrettanto grandi sconfitte. E ognuna accompagnata da filmati d’epoca e dalla musica di Keith Jarrett, degli U2, di Bob Dylan, Springsteen, Bach.

La musica, come lo sport, è bellezza e lo spettacolo si apre con una storia che ha per protagonista proprio Jarrett e il suo The Köln concert, del 1975. La “più fantastica” delle improvvisazioni soliste, un capolavoro di musica che è diventato uno dei dischi più venduti di tutti i tempi, ma che Scanzi narra essere nato per caso, dall’imperfezione del pianoforte e dalla capacità di Jarrett di renderlo perfetto con il suo talento e la sua determinazione. Come i campioni che lo scrittore aretino racconta. Le vicende sono note, si sa come vanno a finire, ma il pubblico ascolta in silenzio, come se le sentisse o le vedesse per la prima volta.

E allora, ecco Pietro Mennea, la freccia di Barletta, il proletario, detentore per 17 anni del record del mondo nei 200 metri, conquistato alle Universiadi di Città del Messico nel 1979, con un tempo di 19’72’’. Medaglia d’oro ai Giochi di Mosca nel 1980. Lui, che da ragazzo aveva comprato le scarpe da corsa di diversi numeri più grandi, perché dovevano durare, che aveva preso quattro lauree e si era messo a fare prima l’avvocato e poi il commercialista, dopo il ritiro nel 1981. Un gigante. «Imperfetto – lo definisce Scanzi – ma che è diventato perfetto allenandosi 360 giorni all’anno, per 20 anni, per quel record e quella medaglia d’oro»

Come un gigante è stato Jury Chechi, il Signore degli anelli, la seconda storia. Le immagini di Atlanta 1996, gli 8 secondi della “croce” e la perfezione di quel volteggio che lo portò leggero sul podio più alto, scorrono proiettate sulle pareti del castello e sono ancora vive in chi passò la notte alla tv a tifare il pratese più famoso. Quella vittoria straordinaria era stata preceduta da un brutto infortunio, un mese prima delle olimpiadi del ’92. Poi un altro infortunio e addio anche alle olimpiadi di Sidney del 2000. A quel punto, chiunque avrebbe deposto le armi. Ma non lui, che promette al padre ammalato di tornare ad allenarsi e vince la medaglia più bella della sua vita: il bronzo di Atene nel 2004. Ha 35 anni, l’esecuzione non è perfetta, ma la classe e la bellezza dell’esercizio, con le braccia che tremano impercettibilmente nell’esecuzione della “croce”, valgono mille volte più del bronzo che Chechi portò a casa.

Photo : Yuzuru SUNADA / Slide

Classe, bellezza e dolore. Marco Pantani, il Pirata, il più triste. Doppietta a Giro e Tour nel 1998. Pantani che stacca Ullrich, lo Squalo, alle Deux Alps, che vince in salita «perché la odia e vuole che finisca il prima possibile», racconta Scanzi, che pedala verso il trionfo, senza sapere che il destino beffardo lo attende implacabile a Madonna di Campiglio. E ascoltando le sue parole nell’intervista a Gianni Minà del ’99, che Eroi ripropone per qualche minuto, ognuno si sente colpevole per averlo osannato, accompagnato nelle sue salite e infine lasciato andare, da solo, questa volta in discesa, lungo la china della disperazione.

E come non ricordare Gilles Villeneuve, «che Enzo Ferrari diceva di aver amato come un figlio», sottolinea Scanzi. Un fantasista al volante, un pazzo dallo sguardo dolce, capace di arrivare al traguardo su tre ruote al Gran premio di Zandvoort, ma incapace di reggere al dolore per il tradimento dell’amico e compagno di squadra Didier Pironi, a Imola. E infine Zolder, le prove e l’incidente che lo ha sottratto alla vita per consegnarlo alla leggenda.

La storia del Pirata e del ferrarista sono davvero tristi. Serve un lieto fine e Scanzi racconta Nadia Comaneci, la più grande ginnasta di tutti i tempi, tanto perfetta ai Giochi olimpici di Montreal da costringere i giudici a inventare il 10 per dare la giusta valutazione alla bellezza dei suoi esercizi. Cresciuta nella Romania di Ceausescu, privata della dignità e della libertà, segregata in casa e abusata per anni dal figlio del dittatore, lei che volteggiava sulla trave e alle parallele con la leggerezza di uno spirito libero, che ha saputo riscattarsi e vincere la gara della vita, con la forza del coraggio e della determinazione. La sua storia mette i brividi, Scanzi lo sa e affida il commento musicale agli U2 di Where the streets have no name.

Nella carrellata di Eroi, non poteva mancare The Greatest, Muhammad Alì, il più grande, un corpo perfetto e un cervello sopraffino, la dignità e la forza. Alì, che all’apice del successo rifiuta di arruolarsi e scaraventa in mondovisione il messaggio di pace più potente che mai sia stato lanciato via etere. Non c’è canzone, non c’è manifestazione, non c’è film che più di quella intervista abbia descritto la stupidità e l’inutilità del Vietnam e di ogni guerra. «I vietcong non mi hanno fatto niente e io non faccio 10.000 chilometri per andare a sparare a gente che non mi ha fatto niente». Il più grande, che pagò l’obiezione di coscienza con una squalifica di quattro anni, tornò e vinse ancora, fino a battere Foreman, il 30 ottobre del 1974 nello storico incontro a Kinshasa, quando aveva 32 anni.

Storie belle, tristi, a lieto fine, finite male, buffe. Come il “bis” che Scanzi dedica a Steven Bradbury, il pattinatore australiano che vinse contro ogni pronostico nello short track, alle Olimpiadi invernali di Salt Lake City, nel 2002, perché tutti gli altri concorrenti, in semifinale e poi in finale, caddero a pochi metri dal traguardo. «Fa ridere e sorridere – conclude Scanzi – l’impresa di Bradbury, se non fosse che per arrivare a quel risultato è praticamente morto due volte in due gravissimi incidenti e ha sopportato un calvario durato oltre 10 anni, prima di centrare il sogno».

Eroi si chiude così. Il monologo, nel frattempo, è diventato una lezione di vita attraverso storie, immagini e musica e, nel finale, le parole di Oscar Wilde che scorrono sul muro del castello: «distruggi ciò che ami, prima che ciò che ami distrugga te». Sipario, se non si fosse in una piazza, e applausi. Tanti e meritatissimi.

Il rifiuto di Cassius Clay alle armi – Un video di Repubblica